BRINDISI
Capitale d'Italia IL REGNO DEL SUD
Resoconto della conversazione tenuta
nell'Istituto magistrale "Palumbo" di Brindisi il 14 ottobre
1993 da Denis Mack Smith e Raffaello Uboldi Interventi di Franco Arina,
Antonio Maglio, Renato Minafra e del pubblico Franco
Arina, sindaco di Brindisi
Eccellenze,
autorità, signore, signori, carissimi giovani, il 10 settembre 1943,
allorquando si diffuse in Brindisi la notizia dello sbarco nel porto
del fuggiasco Vittorio Emanuele III e del suo seguito, la città accolse
l'annuncio con un misto di incredulità e di
timore per motivi facilmente comprensibili. Non furono molti, comunque,
che al momento percepirono che la città, per gli eventi drammatici succedutisi
dal 25 luglio all'g settembre 1943, si sarebbe trovata direttamente
partecipe del disfacimento di un regime e di una dinastia e dell'affermarsi,
con matura consapevolezza popolare, del ritorno alla democrazia ed alla
libertà. Fu così che un gruppo di nostri concittadini, intransigenti
antifascisti che avevano nel ventennio, in patria o dall'esilio, alimentato
la fiaccola della libertà, suscitarono con il loro esempio, specie nei
giovani, la speranza che i valori di giustizia sociale e di libertà
sarebbero stati i connotati essenziali della
rinascita democratica del Paese. Brindisi fu, infatti, partecipe, dall’8
settembre 1943 all'Il febbraio 1944, delle vicende del Regno del Sud
nella inconsueta veste di capitale del Regno
del Sud. Non sono certo i personali ricordi di quel periodo
storico che intendo qui riferire, ma rendere solo testimonianza dell'impegno
partecipativo a cui la cittadinanza fece fronte nella generosa rivoluzione
democratica e popolare che si diffuse rapidamente in tutta la penisola. L'iniziativa - promossa dall'Ordine degli architetti,
dall'Archivio di Stato, dalle associazioni combattentistiche - di ricordare
quegli eventi straordinari nel compiersi del loro cinquantesimo anniversario
ha trovato rispondenza sensibile nelle Amministrazioni
comunale e provinciale, nel Provveditorato agli Studi, nella
Camera di Commercio, nel Comando del presidio militare, nel Comitato
provinciale della Croce rossa italiana, nonchè in un gruppo di cittadini
che si sono costituiti in Comitato operativo per Brindisi capitale. L'assunto
non è stato certo quello di dare un significato celebrativo retorico
al cinquantesimo di Brindisi capitale, ma di indicare, specie ai giovani,
il ruolo che Brindisi assolse in consonanza
con la crescita democratica dell'Italia nelle vicende considerate. Ed
è proprio nei riguardi dei giovani che il Comitato intende rivolgere,
attraverso la scuola, l'impegno di sollecitazione, con argomenti di
studio e di ricerca, per un approfondito motivo di riflessione anche
sul parallelismo fra le situazioni del 1943 e quelle attuali, con le
relative diversità che vi si possono rilevare. I valori forti a
cui attinsero i brindisini del 1943 vanno rilevati proprio in
questo delicato momento che attraversa il nostro Paese, perchè il nuovo
si affermi sempre più nella fiducia che i giovani partecipino a pieno
titolo e da protagonisti a tale rinascita. . Questa finalità si propone di perseguire il
Comitato di Brindisi capitale, con alcune coordinate occasioni di confronto
ed una serie di lezioni storiche sulle problematiche emergenti dagli
eventi nazionali e locali del tormentato periodo del 1943/45 riferito
ai giorni nostri. Una di queste occasioni ci sarà
data dalla presenza a Brindisi, si spera nella metà del prossimo
mese di novembre, del presidente del Senato, prof. Giovanni Spadolini,
illuminato politico e storico di larga fama. Oggi,
grazie alla sensibilità di “Quotidiano” al cui direttore rivolgo
un vivissimo sentito ringraziamento, abbiamo il privilegio di godere
di un esaltante incontro con il prof. Denis Mack Smith e con lo scrittore
e giornalista Raffaello Uboldi; un incontro che si colloca nel programma
delineato quale momento altamente significativo per la statura stessa
dei protagonisti. La larga e meritala fama di insigne
storico che il prof. Mack Smith gode universalmente e nel nostro Paese
mi dispensa da una qualsiasi elencazione dei suoi titoli accademici
e della enumerazione dei testi di maggior successo pubblicati, in particolare
su avvenimenti e personaggi italiani. Nel significargli la nostra viva
gratitudine per essere qui fra noi gli rivolgo, anche a
nome dell'Amministrazione comunale di Brindisi, il saluto cordiale di
felice permanenza nella nostra città, certo di interpretare i sentimenti
di tutti i presenti. Eguali sentimenti di gratitudine, di ammirazione e d: saluto, rivolgo all'egregio dott. Raffaello
Uboldi, noto per le alte doti di scrittore e di giornalista, anche per
l’unanime apprezzamento riscosso per la ricostruzione storicorievocativa
del 25 luglio e dell'8 settembre 1943, curata recentemente per la Rai.
Un grazie ancora a “Quotidiano” ed un saluto cordiale a tutti i presenti,
con particolarissimo riguardo ai giovani che numerosi affollano questa
sala, con l'augurio che anche questa lezione di storia serva per la
loro ulteriore crescita culturale e civile. Antonio
Maglio, vicedirettore di «Quotidiano»
A nome del giornale, ringrazio il sindaco e tutti quanti
voi Mi associo a quello
che ha detto il dotto Arina soprattutto per quello che riguarda i giovani.
Aggiungo che generalmente essi affollano le conferenze - il
Provveditore Campanelli lo sa - quando queste si svolgono di
mattina e quindi sono un'ottima occasione per affrancarsi dalle lezioni
o da qualche interrogazione pericolosa. Non si scopre niente di nuovo
a dire questo: ognuno di noi lo ha fatto. Quando ero studente io si
scioperava per l'Alto Adige, e molti non sapevano
nemmeno dove fosse e perchè si scendesse in piazza. Il fatto che voi
studenti di Brindisi siate qui di pomeriggio, e così
numerosi, vuoI dire che siete venuti solo per imparare. E il
giornale della città è lieto di potervi offrire questa occasione. Per l'ennesima volta nella sua esistenza, dunque,
Brindisi giunge all'appuntamento con la storia. Questa città ha sempre
avuto nei secoli una posizione e una funzione strategiche: porta aperta
sull'Oriente durante l'impero romano, scalo di partenza di tutte le
spedizioni verso le altre sponde del Mediterraneo fin dal tempo delle
Crociate. Ad un tratto, per uno dei tanti casi inestimabili del destino,
diventa per una manciata di settimane capitale d'Italia. Questo evento innesca
una serie di circostanze storiche e politiche che sono diventate sedimentazione culturale ma sulle quali bisogna ancora
indagare. Ecco perchè il giornale cittadino ha voluto portare qui studiosi
della levatura di Denis Mack Smith e di Raffaello Uboldi: ci sono ancora
troppe ombre sul Regno del Sud e sul ruolo avuto da Brindisi, che non
fu solo la tappa finale di quella discutibile fuga del re da Roma. Non sono uno storico,
anche se la storia esercita su di me
un fascino particolare, perciò mi limito a dire che gli eventi maturatisi
in questa città nella tarda estate del 1943 rappresentano una svolta.
Un re fuggiasco arriva a Brindisi incalzato da tragiche circostanze;
lo accompagnano un capo del governo di cui quel re non si fida e un
figlio di cui si fida a metà perchè lo considera inadatto alle cose
di Stato; e lo accompagna la consapevolezza che i vecchi alleati, i
tedeschi, lo ritengono un traditore e che i nuovi, gli
anglo-americani, avrebbero chiesto prima o poi non certo la sua
testa, ma la sua corona sì. Il futuro è greve di incognite, come irto di errori è stato il passato. Eppure
è proprio a Brindisi che quel non più giovane erede al trono, incapace
di ribellarsi alla disonorevole fuga da Roma, comincia a studiare da
re e a tentare di restituire al Paese e alla sua dinastia quella credibilità
che suo padre con le sue scelte aveva compromesso. È dal periodo di
Brindisi che il nuovo esercito italiano si ricostituisce per andare
a combattere al fianco dei nuovi al1eati dei quali sarà inferiore per
numero, addestramento e armamento, ma non per valore. Ed
è dai giorni di Brindisi che partono le nuove consapevolezze
democratiche, che prendono forma e sostanza i partiti. È
vero, la caduta del fascismo e la firma dell'armistizio avevano aperto
la strada verso nuove frontiere, ma consentitemi di considerare il Regno
del Sud come uno spartiacque tra il prima e
il dopo. Non lo dico animato da spirito campanilistico, ma perchè quel
Regno di cui Brindisi fu la capitale rappresenta molto di più, nella
storia recente del nostro Paese, di una semplice coincidenza, se vogliamo
di un gioco del destino. lo vorrei che quello slancio verso la rinascita, che partì
proprio da questa città, tornasse su di essa come momento di riflessione
sul domani e come proposito di riscatto, Brindisi, come tante altre
città di questo Mezzogiorno che ha vissuto fasti e nefasti del l'industrializzazione
forzata e la vergogna della Politica senza ideali, non sa dove andare.
C'è bisogno del contributo di tutti per trovare la strada. La ricerca
è impossibile se non si conosce in che modo è stato possibile uscire
da altre situazioni drammatiche, come ci si è rialzati dopo essere caduti.
Il futuro, il più grande dei sogni, ha bisogno del passato. Siamo qui
anche per questo. Vi ringrazio. Denis Mack Smith
Buona sera a tutti voi.
Spero che tutti voi possiate capire il mio italiano piuttosto scorretto.
Io farò del mio meglio per farmi comprendere. Il settembre 1943 è stato un periodo molto drammatico
nella storia d'Italia. Forse non c'è stato mai un momento più disastroso.
La Sicilia è perduta, i tedeschi hanno occupato il Paese e l'esercito
italiano vive un processo di disgregazione. lo
ho pensato che oggi la cosa migliore che potessi fare fosse quella di
parlare del Regno del Sud dal punto di vista di uno straniero, dal punto
di vista cioè degli alleati anglo-americani. Mi pare che questo sia
un aspetto poco conosciuto in Italia e tuttavia, secondo me, contiene
qualche lezione piuttosto importante. Il re arrivò a Brindisi il l’8
settembre. Il giorno prima era avvenuto lo sbarco degli americani e degli
inglesi a Salerno. Era il primo sbarco degli alleati sul continente
europeo. Un momento di grandissima importanza. Essi trovarono il re
che regnava sul Regno del Sud. Il grande problema
per lui e per tutti era di capire come uscire onorevolmente dalla guerra;
se era possibile allearsi con la parte vincente, quale che fosse, con
il minor danno possibile per il Paese; come recuperare il prestigio
dell'Italia ed ottenerne l'inserimento fra le nazioni vincitrici. Ma
in principio nessuno sapeva come affrontare questi problemi ed il Regno
del Sud è incominciato piuttosto male. Tre date sono molto importanti:
il 25 luglio, giorno in cui avvenne l'allontanamento di Mussolini dal
governo; il 3 settembre, giorno in cui il re firmò l'armistizio con
il generale Eisenhower e con gli americani; il 9 settembre, giorno in
cui il re partì da Roma alla volta di Brindisi, la cosiddetta fuga da
Roma. Queste tre date segnarono altrettanti momenti necessari:
l'allontanamento di Mussolini, l'armistizio e la fuga da Roma per costituire
un governo in libertà. Ma tutto ciò accadde
in modo piuttosto approssimativo e quasi incidentalmente. Tutti e tre
questi fatti ci aiutano a comprendere 'perchè il Regno del Sud è cominciato
non nel modo migliore. Con
l'armistizio del 3 settembre firmato in Sicilia, il re promise agli
alleati di combattere contro Hitler, il suo alleato di ieri, e di favorire
l'invasione degli anglo-americani. Ma il re sperava
di restare ancora a Roma tanto che, come contropartita dell'armistizio,
chiese al generale Eisenhower uno sbarco non all'altezza di Napoli ma
di Roma, per poterne uscire indenne. L'obiettivo era quello di costringere
i tedeschi a lasciare il Centro d'Italia e di muoversi verso le Alpi.
Il re chiese ed ottenne da Eisenhower il permesso di prendere alcune
divisioni dallo sbarco di Salerno per trasferirle nelle vicinanze di
Roma Badoglio garantiva di aiutare l'operazione per salvare Roma. Con
essa la guerra sarebbe quasi finita per l'Italia,
e questa era la speranza di tutti. Purtroppo, ci fu un primo disguido
disastroso. I due sbarchi dovevano avvenire il 9 settembre a Salerno
e a Roma, ma il giorno prima Badoglio, in un
momento di panico, denunciò l'armistizio che aveva firmato cinque giorni
prima e cancellò lo sbarco a Roma, con grande costernazione per gli
alleati. Questa decisione portò alla mancata difesa di Roma ed al trasferimento
del re e del governo qui a Brindisi. Purtroppo, il re partì da Roma - doveva farlo
ed io non discuto questo - senza lasciare alcun ordine all'esercito. Come
continuare: combattere con gli alleati contro i tedeschi o ritirarsi
nell'Abruzzo? Un semplice ordine avrebbe potuto far arrivare centinaia
di migliaia di soldati nel Regno del Sud, con
un vantaggio enorme per il governo del re. Si poteva anche resistere
a Roma perchè in quella zona gli italiani erano in numero molto superiore
rispetto ai tedeschi. La notte tra 1'8 ed il 9 settembre i generali
telefonarono a Roma per sapere che cosa fare. Ma
il re non c'era e non aveva lasciato alcun ordine perchè troppo preoccupato
a mettersi in salvo insieme al governo. Molti generali italiani erano sicuri che si
poteva difendere Roma e forse questo sarebbe stato il momento
migliore per tentare di cambiare la posizione dell'Italia schierando
l'esercito contro i tedeschi. E' stata una svista quasi casuale perchè
sappiamo, invece, che un ordine del genere era stato dato alla flotta,
che si era posta in salvo, con grande fortuna
degli alleati, i quali senza la flotta italiana sarebbero stati in grande
difficoltà nel Mediterraneo. Ma all'esercito
non era stato dato alcun ordine per qualche motivo che ancora oggi è
quasi impossibile spiegare. Se l'esercito avesse avuto la possibilità di mettersi in salvo,
senz'altro la guerra sarebbe durata molto meno e non diciotto mesi,
con danni così gravi all'intero Paese. Un'altra
cosa che fa pensare è che il re e Badoglio, capo del governo, hanno
avuto sei settimane di tempo, dopo l'allontanamento di Mussolini, per
poter organizzare le cose. Hanno avuto il tempo per pensare se cambiare
atteggiamento nei confronti dei tedeschi, se combattere a Roma, se coordinare
i piani con gli alleati, se discutere di un armistizio. Ma in quelle
settimane .non hanno fatto niente. Un'altra cosa difficile da spiegare
è che mentre i tedeschi avevano piani per tutte le eventualità, il governo
italiano non aveva alcun piano, e da questo
si capisce che qualche cosa di drammatico doveva accadere senz'altro.
Io non vorrei incolpare il re di questo, ma è
evidente che ci sono stati dei casi favorevoli all'Italia e sono stati
buttati via sconsideratamente. Forse
il primo sbaglio è accaduto proprio nel momento del licenziamento di
Mussolini. il 25 luglio molti generali italiani
pensavano che se il re avesse dichiarato subito guerra alla Germania
sarebbe stata una cosa facilissima. So che è enormemente difficile cambiare
in un momento così, ma potrei elencare tutti quelli che sapevano come stavano le cose
in quei giorni e che erano d'accordo su questo punto. Non
soltanto Bonomi a Roma con il Comitato di Liberazione Nazionale, non
soltanto i partiti di sinistra ma, fra i generali, il capo di stato
maggiore Ambrosio, il suo vice, generale Francesco Rossi, il gene rale
Carboni, che aveva il comando di tutte le truppe a Roma, il generale
Castellano, il generale Utili, dello stato maggiore dell'esercito.
Tutti hanno visto che il 25 luglio c'erano P9chissimi tedeschi in Italia:
quelli che combattevano contro gli alleati in Sicilia non potevano fare
niente, e Roma disponeva di un numero s periore
di soldati italiani. Purtroppo, il re agì in modo opposto: invece di
dichiarare guerra ai tedeschi, disse che la guerra contro gli alleati
sarebbe continuata. Su questo si può anche
discutere, ma è un, fatto che, giudicato retrospettivamente,
si èrivelato un disastro. Come si può spiegare questa decisione? L'ipotesi
che sembra più verosimile è che il re, giustamente si può dire, ha 'tentato
di evitare la guerra totale, di rimanere neutrale. Egli voleva uscire
indenne dal conflitto lasciando che gli alleati sbarcassero in Francia
o arrivassero sui Ba1cani e non in Italia. Non si può incolpare un capo
di Stato per questa decisione, ma si può criticare il suo realismo. Se questa ipotesi è
giusta, spiega quasi tutto: il ritardo nel domandare un armistizio;
il rifiuto, alla fine, di seguire l'armistizio; spiega perchè niente
fu preparato nei quarantacinque giorni tra l'allontanamento di Mussolini
e l'armistizio; spiega perchè il re non fece niente per tentare di salvare
Mussolini. Questi fu messo in prigione, ma in un posto dove i tedeschi
avevano la possibilità di liberarlo. Perchè il re non pensò di portare
Mussolini con sè nel Sud? Tutte queste cose lasciarono un po' di amaro nel generale Eisenhower. Il re e Badoglio avevano
firmato l'armistizio, lasciando intendere di voler aiutare gli alleati
nello sbarco a Salerno, ma poi non fecero niente, anzi resero lo sbarco
più difficile, perchè indussero gli anglo-americani
a dirottare molte truppe a Roma, ma poi all'ultimo momento cancellarono
lo sbarco a Roma. Tutti questi misteri spiegano perchè il Regno del
Sud sia cominciato con una mutua sfiducia tra il re e gli
anglo-americani. Il re non capiva la strategia degli alleati
ai quali lui e Badoglio sembravano quasi una continuazione del fascismo,
visto che combattevano al fianco dei tedeschi. Mi pare che il re rifiutando di difendere Roma
e di dare ordini all'esercito fece la scelta
peggiore. Egli arrivò a Brindisi senza nemmeno un ministero. Non telefonò
nemmeno ai ministri, a Roma, per avvertirli che egli andava al Sud.
Questo fu un altro disastro. Questo spiega perché Eisenhower, per esempio,
abbia preferito spedire munizioni a Tito e non a Badoglio. Quest'ultimo
chiese di creare un esercito nel Sud, ma gli alleati non erano del
tutto convinti che questo esercito sarebbe stato molto di aiuto. Per sostituire Mussolini il re scelse Badoglio,
che era stato veramente un fascista convinto. Egli si faceva chiamare
duca di Addis Abeba; fu per venticinque anni
uno dei più importanti gerarchi del fascismo. Il re non scelse Caviglia,
un altro maresciallo d'Italia, ma scelse Badoglio perchè riteneva -
lo diceva ai suoi aiutanti di campo - che Caviglia
fosse troppo anglofilo, ed egli voleva uno che non lo fosse perchè
voleva tenere una posizione equi distante fra le parti in guerra. E
questo, mi pare, spiega molte cose. Un altro malinteso fu dovuto alla incapacità di valutare bene, in Italia, la strategia
degli alleati. Ancora oggi, in molti libri di storia scritti qui non
si dice che la strategia degli alleati era tutt'altro rispetto a ciò
che si è creduto di essa. Gli alleati hanno
guardato alla campagna italiana come ad un campo secondario, perchè
la loro guerra era contro Rider e proprio questo ha voluto dire lo sbarco
in Normandia, che avvenne pochi mesi dopo. La campagna d'Italia era
un diversivo per attrarre i tedeschi in Italia, non per espellerli.
Il re chiese spesso ad Eisenhower perchè la guerra non si concludesse
più in fretta e fosse cosìlenta. Il re ha criticato il coraggio degli
alleati e la loro capacità militare senza sapere che questa era una
cosa decisa molti mesi prima, a Washington, come la tattica migliore
da adottare. Si doveva prendere Napoli perchè il suo porto era importante,
l'aeroporto di Foggia perchè era importantissimo per le missioni contro
i Ba1cani, contro le fabbriche del sud della Germania
e contro i giacimenti petroliferi della Romania; ma non era necessario
preoccuparsi troppo di arrivare alle Alpi. Forse questa decisione si
può giudicare male, e naturalmente l'Italia ha sofferto per questo,
ma se non si capisce questo, non si può. capire
bene quello che gli alleati volevano. Stranamente il re criticava
gli alleati perchè non erano sbarcati a Roma. Li criticava anche
quando essi tentavano di fare proprio questo, secondo la richiesta dello
stesso re. Ma fu proprio il re a fermare questo
sbarco mettendo a repentaglio, in questo modo, anche lo sbarco a Salemo. La strategia decisa a Washington era quella di
prendere Roma, ma di non preoccuparsi eccessivamente se non era
possibile farlo subito. Lo si doveva fare soltanto
se ci fosse stato un appoggio determinante da parte delle forze italiane.
Soltanto a questa condizione la campagna nella penisola si sarebbe conclusa
in fretta. Ma questo appoggio non venne perchè
l'esercito a Roma si disgregò. La flotta, invece, fu un elemento di
prim'ordine per le nazioni alleate; le altre armi lo furono molto meno. Vinta la battaglia a Napoli e a Salemo, l'obiettivo
era quello di contenere i tedeschi. Quando
dico che il Regno del Sud è cominciato male io mi riferisco alla sfiducia
esistente tra una parte e l'altra. Andando a Brindisi il re poteva prendere
Mussolini con sè, come suo prigioniero, ma non lo fece. Anzi, il re
continuava a parlare piuttosto bene di Mussolini ed anche questo non
piaceva molto ai suoi nuovi alleati. I suoi consiglieri a Roma erano
fascisti: Ambrosio, Roatta, Badoglio stesso non erano
certo il simbolo della fine del fascismo. Mi pare che «La Gazzetta del
Mezzogiorno» il giorno dopo l'allontanamento di Mussolini,
titolasse: «Cambio della guardia». Questo voleva dire che non era una
cosa del tutto sconvolgente; che si trattava solo di un cambio della
guardia all'interno del fascismo, dovuto al
fatto che Badoglio, Dino Grandi ed altri avevano avuto il sopravvento
su Mussolini. Ma pur non avendo fiducia
di Badoglio e del re, gli alleati si rendevano conto chiaramente che
essi erano l'unica amministrazione in grado di funzionare o che poteva
funzionare subito in Italia. Rappresentavano l'unica possi bilità di
evitare l'anarchia. Il re aveva la lealtà dell'esercito, di quella piccola
parte della burocrazia che era rinata, della polizia e dei carabinieri. L'appoggio
dato dagli alleati al re e a Badoglio, cosa che in seguito fu molto
criticata in Italia, si spiega in questo Gli alleati a Brindisi avevano
un'impressione non molto favorevole del re, che sembrava loro un uomo
cui mancava completamente la capacità di decidere. Trovavano Badoglio
molto più simpatico ed anéhe più efficiente. Il re era un problema
per loro. Anche quando era a Brindisi, quest'uomo si faceva chiamare
ancora imperatore di Etiopia, questo poveri
no che dopo la perdita dell'Etiopia era rimasto solo re di Albania.
Quando gli alleati gli chiesero perchè continuava
ad usare questi titoli, egli rispose che senza il Parlamento non poteva
cambiarli. In realtà aveva acquisito tanti titoli senza andare in Parlamento
per averne il consenso. Quindi, è particolarmente strano che citasse
questa istituzione, che egli stesso aveva abolito molti anni prima.
Gli inglesi speravano che il re allargasse il governo per includere
i partiti democratici e liberali: i democratici cristiani, j socialisti
e i liberali, naturalmente. I comunisti ancora non c'erano ed il loro
arrivo era atteso. L'altra curiosità di questo re è che parlando
con gli alleati egli diceva che gli italiani non sapevano governarsi,
che non erano capaci di decidere, insomma che vrano un popolo inadatto
all'autogoverno o alla democrazia. In particolare, egli sosteneva che
gli italiani non avrebbero dovuto avere mai la possibilità di votare
per decidere se la monarchia dovesse continuare
o meno. Badoglio diceva le stesse cose. Evidentemente, avevano deciso
insieme di dire agli alleati che soltanto la monarchia poteva governare
l'Italia. Ma queste affermazioni contro gli italiani non erano molto
bene accettate dalla Commissione di controllo.
Non erano un buon segno che il re fosse veramente
all'altezza della situazione. L'altro punto di divergenza era che il re continuava
a non voler dichiarare guerra alla Germania.
Anche dopo che era arrivato a Brindisi, per molto tempo rifiutò di aprire
le ostilità contro gli ex alleati, e questo con grande
sorpresa degli anglo-americani, i quali avevano visto che i tedeschi,
anche senza dichiarazione di guerra, fucilavano i soldati italiani catturati.
Ma il re continuava a rifiutare di dichiarare guerra, anche
quando questa era l'unica possibilità che aveva di schierarsi al fianco
dei nuovi alleati. Questa è una cosa ancora misteriosa. Diceva che non
poteva dichiarare guerra senza il Parlamento. Però, senza il Parlamento,
egli aveva dichiarato guerra contro l'Inghilterra, contro l'Etiopia,
contro l'Albania, contro la Francia, contro
la Russia e contro l'America. Allora perchè non poteva combattere contro
i tedeschi senza il voto di un Parlamento che non esisteva? Era una
scusa futile che non fu molto apprezzata. Soltanto un mese dopo che
era arrivato qui a Brindisi, accettò di dichiarare
guerra alla Germania. Era il 13 ottobre. Aveva capito che soltanto così
poteva stare alla pari con gli anglo-americani.
D'altra parte, era l'unico modo per alleviare le condizioni della resa
e l'unico modo per salvare la dinastia da una ventennaIe compromissione con il fascismo. Può darsi che il
suo temporeggiamento si spieghi con il fatto
che volesse negoziare qualche cosa in contropartita. Ma
questo sarebbe stato un tentativo inutile. Quindi,
si tratta di una spiegazione che non mi persuade. Un altro punto di divergenza era l'abdicazione.
Carlo Alberto aveva abdicato per salvare la nazione e per salvare la
sua dinastia. Perchè Vittorio Emanuele m rifiutava? In passato aveva
detto spesso di volerlo fare, ma soltanto quando qualcuno toccava le
sue pr rogative di re, non lo disse quando era in pericolo la nazione,
e nemmeno quando qualcuno gli ricordò che soltanto senza il re
i partiti avrebbero potuto mettersi insieme in un governo ampio
contro la Germania. Se avesse abdicato in qualsiasi
momento, anche il 25 luglio, gli sarebbe succeduto Umberto, che era
molto più popolare di lui e che forse avrebbe salvato la dinastia.
Senz'altro, avrebbe fatto molto bene al governo del Regno del Sud che
ha fatto passare quei mesi solo discutendo se il re dovesse
andare via o no. Purtroppo, per gli alleati, tutti erano in disaccordo.
Qualcuno voleva Umberto, qualcun altro voleva il princi pe di Napoli,
l'attuale Vittorio Emanuele, qualcun altro la reggenza di Maria Josè,
la regina, qualcun altro voleva la Repubblica. Non si riusciva ad accordarsi
su questo. Allora tutti nel Sud invece di fare qualcosa per quella terribile
guerra, passarono dei mesi a dibattere cose sterilissime. Gli inglesi
e gli amerieani erano grandemente sorpresi del rifiuto del re di definire
alcunché pur di conservare la sua dinastia. Ma mi pare che la sua sia stata una valutazione errata, che
ha fatto molto male al Paese. Altro
punto fondamentale era la necessità di allargare il governo, con l'inclusione
dei partiti antifascisti. Questo era consigliato da tutti, da Eisenhower,
dagli alleati, dal Comitato di Liberazione a Roma e a Milano, da tutti
i partiti antifascisti a Napoli e a Brindisi, anche dallo stesso Badoglio.
Badoglio addirittura coraggiosamente andò dal re per dirgli che soltanto
la sua abdicazione poteva aiutarlo a costituire un governo stabile
per il Paese. Anche Churchill voleva che il re andasse via. Tutti continuano
a pensare che Churchill ha tentato di salvare
il re. In realtà egli voleva che il re allargasse il governo; a poco
a poco si convinse che con Badoglio si poteva discutere, ma che era
il re a creare difficoltà. L'ostinazione del re alla fine rese impossibile
la sua permanenza. Benedetto
Croce era un uomo di destra, un conservatore liberale, un monarchico
convinto che nel plebiscito del 1946 votò per la monarchia. Ma
del re scrisse: «Il re, dopo Mussolini, rimane il vero ed il maggiore
rappresentante del fascismo. Pretendere che l'Italia conservi il presente
re è come pretendere che un redivivo resti abbracciato
con un cadavere. Lui doveva andare via come atto di sensibilità morale.
Il re si è congiunto corpo ed anima al fascismo
ed ha assunto una responsabilità maggiore di Mussolini. Mussolini era
un povero diavolo - diceva sempre Croce - ignorante, corto di
intelligenza, ubriacato da facili successi demagogici. laddove
il re era stato accuratamente educato ed aveva governato un'Italia
libera e civile. Il re sta tentando di ricostituire in Italia, nel
Regno del Sud, un regime fascistico per proteggere la dinastia». Questo
venne detto da un monarchico convinto. È strano
che il re non abbia avuto la sensibilità di capire che se avesse
abdicato sarebbe stato molto meglio per lui e certamente per
suo figlio, per i partiti e per l'Italia. Carlo Sforza arrivò
con l'apprezzamento di tutti. Egli era stato il capo dell'antifascismo
esule. Egli aveva molta esperienza ed era venuto dall'America per portare
il suo contributo. Era un repubblicano, ma volle continuare la monarchia.
Tornò in Italia soltanto dopo aver convinto gli americani e gli inglesi
che lui voleva aiutare Badoglio e il re. Promise, sulla sua parola d'onore,
di aiutare il governo, di consolidare il Regno del Sud. Purtroppo, arrivando
nel Sud cambiò radicalmente; in cinque mesi non fece altro che apportare
altra confusione in questo assurdo problema
istituzionale: se era necessaria o meno una monarchia. Ma lascio da
parte questo argomento, che è sicuramente importante ma non tanto. In
tutti questi torbidi la politica alleata era piuttosto chiara. Naturalmente,
c'erano diversi punti di vista anche tra gli americani e gli inglesi.
Ma Churchill, Rooswelt, Eisenhover e i generali inglesi erano d'accordo
sul fatto che il re dovesse andar via, ma soltanto quando fosse
tornato a Roma e quando gli italiani lo avessero deciso. Fino ad allora era meglio che la situazione restasse così com'era.
Eisenhower andò più in là. Egli disse che soltanto con un ampliamento
del governo in senso più democratico e liberale sarebbe stato possibile
consentire al Regno del Sud un allargamento del suo territorio fino
a Salerno. Ma i partiti non erano 'ancora arrivati ad un accordo. Qualcuno
voleva addirittura una specie di luogotenenza del re. Ma non c'era intesa. In tale situazione era molto difficile
per gli alleati assumersi delle responsabilità con una
amministrazione della quale non si fidavano. Fu
soltanto con l'arrivo di Togliatti e dei comunisti in Italia che si
risolse questo problema. Gli alleati furono molto
grati a Togliatti perchè alla fine costrinse tutti a formare
un governo sotto il re. Di questo realismo nessun altro era stato capace.
Soltanto nel marzo, quando arrivò Togliatti, si mise fine a tutti i
battibecchi tra i partiti che in tempi normali sarebbero stati una cosa
ottima, ma che in quel momento di guerra erano una cosa deteriore. E
così, con Togliatti, ebbe fine ciò che Giorgio Bocca chiama «la tragicommedia del Regno del Sud». Forse è stata
una commedia, ma io ritengo sia stata anche una tragedia. Certo, fu
una situazione che non contribuì a risolvere i problemi del Paese, anche
se grazie ad essa si impose un principio: che
la classe politica fascista sparisse. Purtroppo, Badoglio e il re, che
pure erano una componente della classe politica
del fascismo, per il momento era necessario che restassero a capo del
governo fino a quando non si fosse arrivati a Roma per consultare Bonomie
gli altri politici. Ma a Roma vi erano ancora
i tedeschi. È per questo che gli alleati continuarono
ad appoggiare il re. Per lo stesso motivo gli
americani appoggiarono l'imperatore del Giappone, che non era certo
un uomo molto piacevole ma era un uomo con cui si poteva agire e di
cui ci si poteva fidare, almeno fino ad un certo punto. Nel
Regno del Sud non c'era una situazione in questo senso e forse non poteva
verificarsi. Non stava certamente agli alleati decidere che tipo di
governo doveva esserci in questo Regno, né stabilire se era necessario
instaurare una monarchia o una repubblica. Qualsiasi
intervento politico degli alleati sul governo avrebbe senz'altro creato
delle divisioni enormi. E quasi certamente
sarebbe stato controproducente. Tutti si sarebbero opposti a
ogni tentativo di imporre una soluzione qualsiasi. Tutti i partiti chiedevano
agli alleati di fare qualcosa, ma non erano sinceri, perchè se gli
alleati fossero intervenuti io sono sicurissimo che sarebbe stata la
cosa peggiore. Ripeto che non c'era un appoggio di Churchill e di Roosvelt
per la monarchia in sé: essa era considerata soltanto una cosa utile
per il ,momento. Gli inglesi e gli americani
erano pronti ad un cambiamento radicalé a Brindisi ma solo se gli italiani
lo avessero voluto veramente. Posso
citare, come ultima cosa, una breve frase che ha una
importanza simbolica. lo sono rimasto
molto sorpreso quando ho trovato questo documento tra quelli inglesi.
È stato scritto dal primo ambasciatore italiano dell'Italia liberata
a Londra. Egli dice che «all'Italia farebbe bene avere un po' di repubblica
ed anche un po' di comunismo». È un'idea che io non mi sarei
aspettato di trovare. Mi ha sorpreso e non so spiegarla, ma vale
la pena soffermarsi su questo. Un'altra
cosa che non si capì bene fu la venuta di Togliatti da Mosca in Italia.
Egli sorprese tutti perchè, essendo comunista, disse: «Andiamo con
il re». Questo fu uno shock per tutti, qui. Ma questo è realismo, una
cosa che non c'era nel Regno del Sud, né da parte di Badoglio, nè da
parte del re, ma nemmeno da parte dei parti ti che pure nel senso del
realismo tentavano di ricostituirsi. Franco
Arina, sindaco di Brindisi
Questo
lungo applauso dimostra tangibilmente l'apprezzamento che c'è stato
per questa lezione di storia che il prof. Denis Mack Smith ci ha impartito.
Grazie ancora. Adesso cedo la parola al dottor Maglio per delle comunicazioni. Antonio
Maglio, vicedirettore di «Quotidiano»
Io
aspettavo che da Lecce arrivasse il direttore che so impegnato in alcuni
problemi da risolvere. Mi dicono che purtroppo non può venire. Teneva
molto a partecipare a questa manifestazione,
che ha voluto, lui brindisino, per la sua città. Mi ha inviato un messaggio
chiedendovi di scusarlo, ed è quello che faccio. È qui presente, però,
il presidente del Consiglio di amministrazione
di «Quotidiano», dotto Renato Minafra, il quale porterà il saluto in
qualità di editore del giornale. Renato
Minafra, presidente del Consiglio di amministrazione
di «Quotidiano»
Io
vorrei scusarmi per il ritardo, ma è stato
complicato arrivare fin qui. Adempio ad un impegno preso l'anno scorso
e che il Consiglio di amministrazione ha voluto fosse rispettato. L'anno scorso,
in occasione della presentazione della ristampa della
«Guida di Brindisi» di Pasquale Camassa, annunciai che avremmo fatto
qualcosa di importante per questa città che il nostro giornale ha particolarmente
a cuore. Penso che con questo tipo di manifestazione «Quotidiano» abbia
mantenuto la sua promessa. Grazie. Raffaello
Uboldi
Parlare dopo Denis Mack
Smith, il quale ha detto tante cose, e le ha dette così bene, per me
è. un compito
difficile. Vorrei aggiungere che io non sono uno storico, quanto meno
uno storico di professione, ma soltanto un giornalista che qualche volta
si occupa di storia. Vorrei aggiungere che
sono parecchi in Italia i giornalisti che
si danno questo compito, e qualche volta anche con risultati apprezzabili.
Vorrei citare, tra le altre cose, l'ultimo libro di Gianni Rocca, vicedirettore
di Repubblica, che si intitola «Avanti, Savoia» e che, per la prima
volta, tratta, fuori dal mito, delle guerre
del Risorgimento nazionale. Vorrei
aggiungere che scrivendo o comunque trattando
di storia, ho avuto delle sorprese. Le ultime mi sono venute dalle
due trasmissioni che ho curato per la seconda rete televisiva insieme
all'amico e collega Arturo Gismondi, che si intitolano
una «Cinquant'anni dopo il 25 luglio 1943" e l'altra
«L'8 settembre successivo». La
prima sorpresa è stata assai gradevole per noi perchè le trasmissioni
hanno registrato un'audience di due milioni di spettatori in media.
È chiaro che non eravamo a «Domenica in», ma bisogna considerare che si trattava
di una trasmissione di storia, che per giunta andava in ond in seconda serata, alle 22.30. E stata la trasmissione che sulle tre reti televisive ha riscontrato
il maggior successo, con un'audience media dell'11%. Questo sta
a significare che la storia interessa tutt'oggi
i telespettatori, anche quelli della fascia media. La
seconda sorpresa è venuta dalle telefonate e dalle lettere che abbiamo
ricevuto. È chiaro che parlo sempre di spettatori di cultura media,
ma abbiamo verificato che a distanza di cinquant'anni molti non conoscevano
ancora tutta la dinamica dei movimenti e le ragioni che li avevano
prodotti. La terza sorpresa, sempre gradevole, è stata che cinquant'anni
dopo abbiamo potuto dire alcune cose. senza sollevare scandalo. Parliamo
del 25 luglio 1943. I personaggi che nella notte tra il 24 e il 25 luglio
misero in minoranza Mussolini all'interno del Gran Consiglio, si sono
sempre trovati schiacciati tra due tipi di storiografia: la prima, che
possiamo definire fascista-repubblicana, secondo la quale questi
personaggi erano dei volgari traditori e quindi meritevoli soltanto
di fucilazione, come accadde a Galeazzo Ciano e ad altri dopo il processo
di Verona; la seconda storiografia, che possiamo definire antifascista,
è quella secondo la quale questi personaggi erano dei semplici cialtroni
che agirono solo per salvare la loro pelle. Abbiamo, invece, detto ciò
che ci sembrava esatto, cioè che questi personaggi,
nel quadro di quello che erano, cioè dei fascisti, avevano comunque
una vena di senso dello Stato e di patriottismo che li indusse a cercare
di liberarsi di Mussolini per trarre l'Italia dagli scogli della guerra.
E furono personaggi che pagarono in proprio: Dino Grandi con l'esilio,
Giuseppe Bottai nella legione straniera, Galeazzo Ciano fucilato a Verona
insieme ad altri. Vorremmo continuare
su questa linea, e le prossime trasmissioni, che andranno in onda nella
prima metà dell'anno a venire, riguarderanno
proprio il Regno del Sud - ed è questa una delle ragioni per cui sono
molto lieto di essere qui questa sera -, il processo di Verona, l'uccisione
di Giovanni Gentile e la liberazione di Roma. Questa è
la programmazione per la prima metà dell'anno, poi vedremo per
la seconda metà. Per
quanto riguarda il Regno del Sud faremo il
possibile - e credo che saremo in grado di farlo - per trarre questo
periodo di storia italiana non dico dall'ombra ma dalla penombra nella
quale, tutto sommato, è rimasto rinchiuso. La
Resistenza, il vento del Nord furono importanti,
ma ci fu anche qualcosa che maturò a Brindisi, a Salerno, fino alla
liberazione di Roma nel giugno del 1944: la ricostituzione, in qualche
modo, di uno Stato; la collaborazione tra i partiti; il cosiddetto «governo
dell'esarchia», che fu l'ultimo governo Badoglio prima della liberazione
di Roma, che prelude al patto costituzionale tra i partiti dell'antifascismo
italiano; la costituzione di un primo nucleo, certamente ridotto e
con molti problemi alle spalle, di un esercito italiano, che combatté,
e anche bene, a Montelupo, subendo perdite molto dolorose quando si
trovò un fianco scoperto; che combatté sulle pendici di Cassino, a Volturno,
e che fu il primo nucleo del cosiddetto Corpo Italiano di Liberazione,
una serie di unità che raggiunsero il Nord assieme agli alleati. Ritengo
importante dire questo anche per ricollegarmi all'8
settembre. lo mi rendo conto che ci fu ritardo,
sfascio, caos, che ci furono, per esempio, generali che dopo vent'anni
di dittatura non erano più abituati a pensare in proprio e a prendere
decisioni in proprio. Mi rendo conto che dal 25 luglio, giorno della
caduta di Mussolini, all'8 settembre si potevano fare molte cose. Qualcosa, comunque fu fatta: per esempio, nei negoziati con gli alleati
si cercò di strappare un po' di più di una resa incondizionata.
Non era sicuramente facile l'operazione di resa: vi erano sessanta divisioni
italiane divise tra l'Italia, i Balcani, la Grecia, l'Egeo, la Frància
meridionale. Non era facile trarre il meglio da questa
difficile situazione, nella quale, credo per la prima volta nella storia,
un paese si è trovato. Ma ci furono
anche altre cose. Non ci fu soltanto lo sfascio,
non ci furono soltanto i 600 mila italiani prigionieri in Germania,
molti dei quali arresisi senza combattere. Ci fu la Marina, che rese
un servizio inestimabile al Paese scendendo compatta verso il Sud, verso
Malta. Certamente, fu una decisione amara, per gente che fino al
giorno prima aveva combattuto su un certo fronte, trovarsi improvvisamente
su un altro fronte. La Marina rese al Paese un servizio diretto e un
servizio indiretto. Rese un servizio indiretto perchè gli alleati, al momento dello sbarco
di Salerno - che a seguito della reazione tedesca per poco non erano
stati costretti a reimbarcarsi -, almeno non si trovarono di
fronte anche i cannoni della flotta italiana.In quel caso la situazione
sarebbe stata davvero molto dura. Rese un servizio diretto quando partecipò
a molte delle operazioni militari nel Mediterraneo, scortando convogli
e affrontando anche scontri con unità tedesche. Ci fu il caso di Cefalonia,
dove un'intera divisione, la divisione «Acqui», si fece massacrare dopo
aver tentato di combattere i tedeschi e aver dovuto arrendersi soltanto
perchè priva di copertura aerea. Ci fu il caso del porto di Bari, liberato
con un'azione molto audace da parte del generale Bellomo. lo
mi chiedo se a Bari ci sia una strada o una piazza intitolata a questo
soldato. Ma, sempre per tentare di delineare
il quadro di un contributo che certamente non fu il maggiore ma che
ebbe una sua importanza, va ricordato che ci furono la Resistenza,
le armi cedute dai soldati italiani sbandati ai partigiani di Tito in
Jugoslavia, ai Greci e agli Albanesi, e ci furono le unità combattenti
degli ex soldati dell'esercito italiano. lo non so quanti si ricordano che la prima unità ad entrare
a Zugabria e a liberarla fu la divisione «Garibaldi-Italia»e che il
battaglione «Gramsci» fu tra i primi a collaborare ulla liberazione
di Tirana e a entrare in questa città. Certo,
si poteva fare molto di più: si poteva cercare di difendere Roma e non
lo si fece. lo ritengo che qui ci
furono responsabilità da parte di Ambrosio, di Roatta e di Carboni,
che rifiutarono lo sbarco della divisione aereotrasportata comandata
dal generale Ridge, che poi divenne comandante, tra le altre cose, degli
americani in Corea e della Nato e che in sottordine aveva come vice-comandante
Maxwell Taylor. Ci fu perfino l'idea, suggerita da Carboni e sia pure
con molta esitazione anche da parte dello stesso Badoglio, di denunciare
un armistizio che si riteneva fosse stato annunciato troppo in fretta
dagli alleati. L'armistizio venne
firmato il 3 settembre e reso pubblico 1'8 settembre, appena cinque
giorni dopo. È vero che c'erano i 45 giorni del governo Badoglio alle
spalle, ma ancora si combatteva e si era incerti
su cosa esattamente fare. Un paese non esce da una guerra dall'oggi
al domani. Era difficile sparare su quei tedeschi con cui si era combattuto
fino al giorno prima. Alcuni ebbero questo
graI\de problema di coscienza. A
questo punto si arriva alla mancata difesa di Roma che attribuisco
fondamentalmente alla irresponsabilità di generali disabituati a decidere
di testa propria. Al re non rimane altra scelta che trasferirsi in una
zona libera del territorio nazionale, una zona dove non c'erano tedeschi
e nemmeno alleati, per esercitare le sue funzioni di capo dello Stato.
Aveva un'altra soluzione: quella di avvolgersi nel tricolore, di mettersi
al comando di un reggimento e di farsi ammazzare a Roma. Ed io personalmente
credo che i re esistono anche per questo, per farsi ammazzare, se occorre.
In questo caso avrebbe salvato la monarchia. Poteva lasciare che a Roma
ritornasse il principe Umberto, con il rischio, però, che venisse
catturato dai tedeschi che potevano fargli dire tutto quello che volevano.
Se ne andò, scelse l'unica strada libera, la via Tiburtina, che portava
verso Pescara e Ortona Mare e s'imbarcò per Brindisi. lo
non la chiamerei «fuga». Il
re certamente non era un personaggio abituato a gesti spettacolari come
quello di farsi ammazzare avvolto nel tricolore, ma non era nemmeno
un vile. Era un re che aveva alle spalle molti demeriti, tra cui l'adesione
al fascismo, ma anche alcuni meriti. Scelse
Brindisi pensando di porre in salvo il capo dello Stato, il suo eventuale
successore Umberto, il capo del governo. Il grande spaventoso errore
- ma fondamentalmente fu un errore di Badoglio fu quello di dare ordini
molto caotici alle truppe che restavano a Roma, il cosiddetto «ordine
sul tamburo» che era quello di ritirarsi verso l'Abruzzo in un momento
in cui le forze italiane, impegnate contro i tedeschi, non erano probabilmente
in grado di farlo. È vero che il re era il comandante dell'esercito,
ma lo era formalmente, non era lui che dava
ordini di battaglia. Il
re arriva a Brindisi e i già grandi problemi diventano parecchi: riorganizzare
uno Stato, un'amministrazione, le banche, la moneta, i trasporti, i
viveri e cose di questo genere. Si cercò di negoziare una cobelligeranza
con gli ulleati. Certamente si tardò a dichiarare guerra alla
Germania, ma contemporaneamente si cercava di ottenere clugli
alleati la maggiore cancellazione possibile delle clausole del cosiddetto
«armistizio lungo», quello firmato u Malta dai pIeni potenzi ari italiani.
Le clausole erano dure, ed era ovvio che fossero tali perché eravamo
un paese vinto, ma si cercava di negoziare la nostra partecipazione
alla guerra con l'ammorbidimento di alcune di queste clausole. L'altro
grande problema era quello di creare un governo
di unione nazionale con la partecipazione di persone rispettatissime,
di destra o di sinistra che fossero, quali Benedetto Croce, Carlo Sforza,
che era tornato in Italia dall'America, e tutti coloro che potevano
contribuire alla ricostruzione del Paese. Questa
prospettiva si scontra, qui a Brindisi, con il problema istituzionale.
Ripugnava profondamente ai partiti ed ai rappresentanti dell'antifascismo
di collaborare con un re che non era responsabile dell'8
settembre ma che sicuramente aveva peccato nei confronti della nazione
durante il ventennio fascista. Non era stato certamente il re che aveva
portato Mussolini al potere, anche se non firmò il famoso decreto sullo
stato d'assedio nei giorni della cosiddetta «marcia su Roma». Mussolini
era andato al potere per tante ragioni. C'erano i grandi problemi della
riconversione industriale, dell'industria di guerra e dell'industria
di pace. C'era il problema dei reduci della Grande Guerra che tornavano,
e se erano contadini chiedevano condizioni di lavoro migliori dopo aver
servito il Paese sui tanti fronti. C'erano i partiti che non avevano
saputo governare questo Paese. C'era
il massimalismo della sinistra, quella sinistra socialista che aveva
scatenato il famoso biennio rosso convinta che in Italia fosse possibile
creare qualcosa di simile a quello che Lenin aveva fatto in Russia,
che fosse possibile una rivoluzione. Era la stessa
sinistra massimalista che sputacchiava gli ufficiali che tornavano
dal fronte dove avevano semplicemente fatto il loro dovere. Questa fu
la ragione per cui uno dei fratelli di Sandro Pertini personaggio al
di sopra di ogni sospetto -, capitano tornato dal fronte, dove
si era comportato onorevolmente, aggredito e coperto di insulti e di
sputi a Savona perché in divisa di ufficiale, si iscrisse al Partito
fascista. Questa sinistra massimalista capace di catture simpatie dei trinceristi, di quei soldati che
tornavano dalla guerra e che chiedevano certe cose ma che al tempo stesso
non volevano rinunciare alla dignità di essere stati soldati. Questa sinistra fu
quella che provocò la scissione comunista,
nel 1921 a Livorno, mentre c'era già il fascismo trionfante, e anzichè
battersi contro il fascismo giudicò molto più importante creare in Italia
un partito sul modello di Lenin. Ci
fu la seconda scissione socialista nel 1922, nei giorni della marcia
su Roma: i socialisti italiani si divisero per la seconda volta con
i capi storici, Turati e Treves, che rappresentavano l'ala riformi
sta, che se ne andarono e l'ala massimalista
rimase. Dov'era la direzione comunista nei
giorni della marcia su Roma? Non stava a Roma a difendere questo Paese
ma era su un treno diretto a Mosca per seguire un congresso dell'Internazionale comunista, per
conoscere Lenin, cosa che veniva giudicata
molto più importante che sbarrare la strada al fascismo qui in Italia. D'altra parte c'erano dei partiti borghesi
che non riuscivano a creare un governo stabile. C'era un partito popolare,
che, dopola marcia su Roma avrebbe votato la
fiducia al primo governo Mussolini per bocca di De Gasperi che di quel
partito era il portavoce. I popolari non riuscivano
a mettersi d'accordo con i socialisti, i quali, a loro volta, non riuscivano
a mettersi d'accordo con gli altri. Erano i due gruppi più importanti
del Parlamento, che avrebbero potuto dare
vita ad un governo stabile. Mussolini, quindi era andato al potere
anche per gli errori degli altri. Tutto questo non era stato il re a
volerlo, egli era sicuramente un sovrano costituzionale che doveva
«regnare ma non governare». Certo, un re ha dei doveri che vanno, secondo
me, al di là delle formule. lo ho incomtrato
Juan Carlos di Spagna, per due volte, nella picco a reggia della Zarzuela,
fuori Madrid, per una biografia che scrissi su di lui, pubblicata da
Rizzoli insieme alle bi0grafie di Pertini e di Karol Wojtyla. Tra le
tante cose che mi riferì nel corso di queste
due conversazioni informali, mi disse: «Caro amico, quella spagnola
non è una repubblica presidenziale ma poco ci manca». Con questo voglio
dire che un re, oggi, deve conquistarsi giorno dopo giorno il diritto
di regnare. Vittorio Emanuele III, invece, non era un re del giorno
d'oggi. Tra l'altro, aveva alle spalle il ricordo del padre assassinato
a Monza che sicuramente pesava su di lui..
Era un personaggio freddo, troppo ligio alle regole costituzionali e
meno capace di intervenire al momento in cui avrebbe dovuto agire in
proprio. Infatti nel giorno dell'8 settembre
non fu capace di uno scatto di fantasia. Queste
sue caratteristiche si erano rivelate particolarmente
gravi nella vicenda del delitto di Matteotti. Quando gli chiesero di
intervenire perchè il capo dell'opposizione
era stato rapito ed ucciso egli disse: «lo non ho occhi e non orecchie,
la Camera ed il Senato sono i miei occhi e le mie orecchie». Quindi,
toccava agli altri intervenire. Fu una curiosa presa di posizione anche
perchè il Senato era di nomina regia. In ogni caso è strano che dopo
che era stato massacrato il capo dell'opposizione, un re si rimetta
alle deCisioni del Parlamento e di un governo fascista. D'altra parte,
egli era stato re d'Italia e d'Albania e imperatore d'Etiopia; aveva
firmato la dichiarazione di guerra alla Francia
e all'Inghilterra, aveva, quindi, pesantissime responsabilità. Pertanto,
era molto difficile collaborare con lui da parte dei partiti, per quello
che contavano. Per inciso, va detto che alcuni uomini, talvolta,
sostenevano di avere alle spalle i partiti e magari non li avevano affatto.
Come giustamente ha ricordato Mack Smith, una persona dalla grande
autorità intellettuale e morale come Benedetto Croce, che sicuramente
non era un comunista ma era un liberale di antico stampo e conservatore,
non era antimonarchico ma era contro Vittorio Emanuele III. E
molti ritenevano che fosse assolutamente impossibile entrare in un governo
Badoglio, perchè questo voleva dire collaborare con il re e mantenere
quel tanto che rimaneva in piedi dello Stato fascista. Tutto
questo creò una grande situazione di stallo.
Ci fu la proposta ultimati va di Benedetto Croce, ricordata da Mack
Smith: abdicazione del re, abdicazione di Umberto, sul trono il giovane
Vittorio Emanuele e Badoglio come reggente. Con quello che è successo
dopo non so se sarebbc stata la migliore soluzione possibile. Si
arriva così, nel gennaio 1944, al congresso di Bari dei 1'mrtiti antifascisti
e dei Comitati di Liberazione dell'Italia liberata
e dell'Italia occupata. Questo congresso pone t\lcune condizioni
ultimati ve: elegge i rappresentanti dei sci partiti antifascisti,
che sono il Partito comunista, il Partito socialista, il Partito d'azione,
il Partito liberale, il Partito dei democratici cristiani e il Partito
dei demolaboristi. Quest'ultimo fu un partito che sparì subito, alla
prova elettorale. Gli azionisti, invece, erano la punta di diamante
di tutto quello che succedeva in quel momento in Italia. Era
un partito di grandi intellettuali che non ebbe
alcun successo elettorale, come spesso succede agli intellettuali, ma
che costituì un momento importante sulla linea di quel cosiddetto "socialismo
liberale" teorizzato dai fratelli Rosselli, particolarmente importante
visto quello che successe dopo. I suoi rappresentanti si distribuirono
nei vari partiti, soprattutto nel Partito socialista e nel Partito repubblicano. Il Congresso dei Comitati
di Liberazione dell'Italia liberata e dell'Italia occupata creò una
giunta esecutiva che diventa una sorta di governo
antigoverno: il governo dei partiti contro il governo Badoglio. Quest'ultimo,
qui a Brindisi e poi a Salerno, capeggiò almeno quattro esecutivi. Come
si vede, l'abitudine dei governi di breve durata ha avuto in questo
Paese una gestazione mqlto rapida, che risale al nascere dell'Italia
non più fascista. Ci fu il governo dei militari e dei tecnici, il governo
dei sottosegretari, che poi diventano ministri,
per cui si costituì in governo dei ministri. Si arrivò, infine, al governo
dell'esarchia, che era, finalmente, un governo dei partiti. Quindi,
vi furono ben quattro governi. Si continuò per un lungo
periodo con questo grave problema istituzionale, che sicuramente -
in questo ha ragione Mack Smith - non consentì
di creare un potere forte a Brindisi fino a quando due persone non sciolsero
il nodo. E le due persone sono De Nicola e Togliatti. Palmiro
Togliatti era stato a Mosca come segretario del Comintern. Aveva vissuto
a lungo nell'albergo Lux dove si erano consumati fatti e misfatti
incredibili, si era distinto per la sua intelligenza, per la sua cautela
e per il suo opportunismo, che gli aveva consentito di salvare la sua
persona nel periodo staliniano, durante il quale tanti altri comunisti,
magari anche filostaliniani ossequiosi al capo, venivano tranquillamente
massacrati. E molti comunisti italiani vennero
uccisi nell'esilio per il più piccolo 'sospetto. C'è un piccolo episodio
che può sembrare una cosa ridicola, ma che è indicativa: un comunista
italiano, operaio in una fabbrica di formaggi, quando arrivò in Unione
Sovietica si accorse che non c'era il gorgonzola, e lo
produsse. Ma i sovietici lo accusarono di aver prodotto formaggio avariato.
E lo misero in galera. Dovette intervenire
Togliatti per farIo liberare. Robotti, il cognato
di Togliatti, venne bestialmente martoriato
e picchiato al punto che gli si ruppe la spina dorsale. Ma Robotti continua
a restare fedele fino alla morte, un fedele
staliniano e un rodele compagno di viaggi dell'Unione Sovietica. Il
comunismo di allora aveva aspetti religiosi e dava perfino del
punti alfa Chiesa cattolica, con i suoi martiri per principio. Togliatti., venendo da Mosca, sapeva una cosa fondamentale: che l'Italia
era stata assegnata al sistema occidentale. E di conseguenza sapeva,
almeno in teoria, che in questa Italia non c'era posto
per un colpo di stato comunisla, a meno che non fosse scoppiata una
grande guerra civile C0me quella che infuriò in Grecia. Ma
anche in questo caso sicuramente ci sarebbe stato un intervento degli
allleati e il Partito comunista
sarebbe stato messo fuori legge. L'unico modo di sopravvivere è quello
di nazionalizzarlo e di farIo accettare dalle
forze della borghesia italiana, comprese quelle conservatrici. Quando
sbarcò a Salerno e arrivò a Napoli, Togliatti aveva a
suo meri!o il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell'Unione
Sovi tica, con lo scambio di ambasciatori, un fatto che rappresentò
un notevole rovesciamento delle alleanze e che dimostra quanto anche
Stalin fosse un grande pragmatico. Con questo precedente alle spalle,
Togliatti dichiarò: l) che bisognava andare al governo con il re; 2)
che si doveva fare una dichiarazione di fede cattolica da parte degli
italiani , perchè l'Italia era - e rimane -
un paese cattolico; 3) che il governo dei partiti antifascisti aveva
il compito fondamentale di organizzare la guerra alla Germania. Dopo un mese di tira
e molla, l'Italia aveva già dichiarato guerra alla Germnia. Acquarone,
consigliere del ovrano, propendeva per l'attesa per tentare di strappare
quante più condizioni possibili agli alleati, mentre Badoglio era favorevole
ad entrare in guerra. Alla fine, si entrò senza ottenere nessuna contropartita,
ma con le clausole dell'armistizio che man mano vennero
alleggerite nei nostri confronti. Per esempio, all'Amministrazione italiana
vennero restituite tutte le province italiane a sud dei confini
settentrionali di Bari, Potenza e Salerno, cosa che consentì al governo
del Regno del Sud, con capitale Brindisi, di trasferirsi a Salerno,
dove c'era la possibilità di meglio organizzarsi. Togliatti,
quindi, prese di contropiede tutti i partiti.
Ma questo non sarebbe bastato se non ci fosse stata
la mediazione di De Nicola. Badate bene, nel congresso di Bari dei
Comitati di Liberazione dell'Italia liberata e dell'Italia occupata
si era posto nella maniera più ferma il problema dell'abdicazione del
re ma non si era parlato più dell'abdicazione di
Umberto. Non credo che questo fosse stato casuale: era un piccolo escamotage ed un primo
indice di un possibile compromesso tra la persona del re e i partiti.
Un Comitato di saggi si recò, allora, dal re e gli disse: «Lei se ne
può andare tranquillamente lasciando il trono ad Umberto; la monarchia
continua». E il re rispose con quattro parole: «Non ho la persona». Questo
significava che non giudicava Umberto capace di regnare e di succedergli.
Vittorio Emanuele In non aveva alcuna stima dell'intelligenza di suo
figlio Umberto che, invece, dimostròdi averne e di
essere capace, diventato «il re di maggio», di conquistare alla
monarchia, a quel tipo di monarchia, una notevole popolarità. Dopo
l'arrivo di Togliatti e la decisione dei comunisti di partecipare ad
un «governo del re», sdoppiando i suoi rapprentanti nel Regno del Sud,
intervenne la mediazione di De Nicola, che propose la soluzione della
luogotenenza, Il re dichiarava la sua disponibilità a lasciare la luogotenenza
del regno ad Umberto, una volta liberata Roma se ne sarebbe andato,
ma in punta di piedi, in maniera tranquilla. Avrebbe aspettato di tornare
a Roma, avrebbe ricevuto il giuramento dei nuovi ministri nelle sue
mani, si sarebbe arrivati, insomma, ad una soluzione di compromesso.
Siamo oramai nel pieno del 1944, abbastanza vicini alla liberazione
di Roma: nel Regno del Sud, con capitule Ravello, c'è il governo della
esarchia. Si
creò in questo periodo quel sistema di arco
costituzionale che, con qualcuno al governo e con qualcuno fuori, ma
nel quadro del cosiddetto bipartitismo imperfetto, è contina.ato fino
ai giorni d'oggi. Tutto questo si creò qui, nel sacl i taliano, per
cui mi sembrà importante parlarne!. Il
compromesso dopo tante polemiche, tra i partiti, il re e Badoglio, potrebbe
anche far dire a qualcuno - forse a qualcuno che ha una vena di cinismo
- che si è fatto mo1to rumore per nulla. In realtà, con l'uscita di
scena del re, si preparavano alla lunga ad uscire di scena la monarchia
e ht casa Savoia, che dal 1848 in avanti avevano
d terminato in modo abbastanza rilevante l'orizzonte italiano. Si voltava
una pagina importante. Sicuramente si sarebbero dovute voltare
altre pagine. Ricorderete la polemica sulla mancata epurazione, sul
sopravvivere all'interno dello Stato di una burocrazia che era
stata fascista e che si riconvertì molto rapidamente all'antifascismo.
Tuttavia si fece qualche cosa di fondamentale. Lo si fece qui nel Sud. lo sono lieto,
per quanto mi riguarda, di aver potuto contribuire a parlare di questo
Regno del Sud, sul quale - ripeto - è caduta una specie di penombra
nordica. C'era sempre stata in Italia - e credo che sopravviva ancora
- una specie di storiografia savoiarda: si
esaltavano sempre i Savoia, e tutto il resto - i Borboni, il Sud - anche
quando c'erano delle cose positive, non esisteva. Dopo l'ultima guerra
ci fu una storiografia che si rivolse contro i Savoia.
lo credo che a cinquant'anni di distanza sia
doveroso dire che, oltre alla Resistenza, che fu un fatto di fondamentale
importanza, ci fu anche qualcosa che nacque qui. Sono lieto che Mack
Smith l'abbia detto e farò il possibile, per quanto mi riguarda, per
dirlo con gli strumenti che sono a mia disposizione. Franco
Arina, sindaco di Brindisi
Ringrazio
il dotto Uboldi. Vorrei comunicare che sia
il prof. Mack Smith sia il dott. Uboldi sono disponibili, per breve
tempo, a rispondere a qualche domanda, che mi auguro sia precisa e
concisa e che venga soprattutto da giovani. Intervento
dal pubblico
Intervengo
io, anche se non sono troppo giovane, per rompere il ghiaccio. Desidero
porgere una domanda a Denis Mack Smith. Vorrei sapere se risulta
esistere un documento storico dal quale si possa evincere che, partite
da Roma ed arrivate a Pescara le varie macchine con i gagliardetti che
portavano i signori generali, ci sia stata una qualche forma di resistenza,
del principe Utmberto, all'imbarco sulla torpediniera che li avrebbe
portati a Brindisi. Vorrei sapere, inoltre, se è vero, storicamente,
che la regina dette l'alto-là al figlio che
intendeva ritornare a Roma e mettersi alla testa di qei tre reggimenti
corazzati che erano a Roma e che potevano combattere i tedeschi. Denis
Mack Smith
Non
so se ho capito del tutto, ma comincio a rispondere. C'è qualche prova
che Umberto, mentre scappava da Roma, abbia protestato
perchè voleva ritornare a Roma. C'è più di un documento. Questo vuol
dire, quindi, che è quasi accertato che egli abbia parlato almono con
due o tre persone a cui avrebbe detto che il
suo posto era a Roma, Il cognato aveva disobbedito al re ed era rimasto
a Roma con i suoi soldati, Umberto sosteneva che un uomo d'onore si
doveva comportare così. Il re disse che, poichè pensava di abdicare,
Umberto doveva essere con 1ui nel Sud e non nelle mani dei tedeschi.
Non so se questo è vero o meno. Per
quanto riguarda il fatto che la regina avesse
dato l'altlo-là ad Umberto, probabilmente è vero. Ho sentito qualche
cosa in merito ma non ne sono sicuro, Non posso risponderle e mi scuso. Raffaello
Uboldi
Per
quanto riguarda l'episodio di Umberto, sono
in grado di aggiungere due cose. Lo stesso Umberto di Savoia, in una
intervista televisiva a Nicola Caracciolo, precisò non quello
che era successo ad Ortona-Mare al momento dell'imbarco, ma al castello
dei duchi di Bovino durante la tappa del viaggio verso Pescara. Umberto
disse testualmente: «Dissi a mio padre che se occorreva qualcuno che
ritornasse a Roma per prendere la testa della sua difesa, io ero disponibile».
Quando
poi, di recente, nella trasmissione sul 25 luglio, intervistai al telefono
Maria Josè - che oggi vive in Messico e che non desidera essere ripresa
perchè le condizioni di età e di salute non
rendono molto gradevole il suo viso - ella mi disse che Umberto era
disposto a tornare ma il Re, che era il comandante dell'esercito, rispose
di no. E lui dovette obbedire perchè era un ufficiale tra i tanti. Alla
mia domanda: «C'era molta disciplina in casa Savoia?», Maria Josè, con
una bella risata, ri pose: «Sì, ce n'era».
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