Quotidiano

BRINDISI

Capitale d'Italia

 


 

IL REGNO

DEL SUD

 

 

Resoconto della conversazione tenuta nell'Istituto magistrale "Palumbo" di Brindisi il 14 ottobre 1993 da Denis Mack Smith e Raffaello Uboldi Interventi di Franco Arina, Antonio Maglio, Renato Minafra e del pubblico

 

 

Franco Arina, sindaco di Brindisi

Eccellenze, autorità, signore, signori, carissimi giovani, il 10 settembre 1943, allorquando si diffuse in Brindisi la notizia dello sbarco nel porto del fuggiasco Vittorio Emanuele III e del suo seguito, la città accolse l'annuncio con un misto di incredulità e di timore per motivi facilmente comprensibili. Non furono molti, comunque, che al momento percepirono che la città, per gli eventi drammatici succedutisi dal 25 luglio all'g settembre 1943, si sarebbe trovata direttamente partecipe del disfacimento di un regime e di una dinastia e dell'affermarsi, con matura consapevolezza popolare, del ritorno alla democrazia ed alla libertà. Fu così che un gruppo di nostri concittadini, intransigenti antifascisti che avevano nel ventennio, in patria o dall'esilio, alimentato la fiaccola della libertà, suscitarono con il loro esempio, specie nei giovani, la speranza che i valori di giustizia sociale e di libertà sarebbero stati i connotati essenziali della rinascita democratica del Paese. Brindisi fu, infatti, partecipe, dall’8 settembre 1943 all'Il febbraio 1944, delle vicende del Regno del Sud nella inconsueta veste di capitale del Regno del Sud.

  Non sono certo i personali ricordi di quel periodo storico che intendo qui riferire, ma rendere solo testimonianza dell'impegno partecipativo a cui la cittadinanza fece fronte nella generosa rivoluzione democratica e popolare che si diffuse rapidamente in tutta la penisola.

  L'iniziativa - promossa dall'Ordine degli architetti, dall'Archivio di Stato, dalle associazioni combattentistiche - di ricordare quegli eventi straordinari nel compiersi del loro cinquantesimo anniversario ha trovato rispondenza sensibile nelle Amministrazioni comunale e provinciale, nel Provveditorato agli Studi, nella Camera di Commercio, nel Comando del presidio militare, nel Comitato provinciale della Croce rossa italiana, nonchè in un gruppo di cittadini che si sono costituiti in Comitato operativo per Brindisi capitale.

L'assunto non è stato certo quello di dare un significato celebrativo retorico al cinquantesimo di Brindisi capitale, ma di indicare, specie ai giovani, il ruolo che Brindisi assolse in consonanza con la crescita democratica dell'Italia nelle vicende considerate. Ed è proprio nei riguardi dei giovani che il Comitato intende rivolgere, attraverso la scuola, l'impegno di sollecitazione, con argomenti di studio e di ricerca, per un approfondito motivo di riflessione anche sul parallelismo fra le situazioni del 1943 e quelle attuali, con le relative diversità che vi si possono rilevare. I valori forti a cui attinsero i brindisini del 1943 vanno rilevati proprio in questo delicato momento che attraversa il nostro Paese, perchè il nuovo si affermi sempre più nella fiducia che i giovani partecipino a pieno titolo e da protagonisti a tale rinascita.

 . Questa finalità si propone di perseguire il Comitato di Brindisi capitale, con alcune coordinate occasioni di confronto ed una serie di lezioni storiche sulle problematiche emergenti dagli eventi nazionali e locali del tormentato periodo del 1943/45 riferito ai giorni nostri. Una di queste occasioni ci sarà data dalla presenza a Brindisi, si spera nella metà del prossimo mese di novembre, del presidente del Senato, prof. Giovanni Spadolini, illuminato politico e storico di larga fama.

 

Oggi, grazie alla sensibilità di “Quotidiano” al cui direttore rivolgo un vivissimo sentito ringraziamento, abbiamo il privilegio di godere di un esaltante incontro con il prof. Denis Mack Smith e con lo scrittore e giornalista Raffaello Uboldi; un incontro che si colloca nel programma delineato quale momento altamente significativo per la statura stessa dei protagonisti. La larga e meritala fama di insigne storico che il prof. Mack Smith gode universalmente e nel nostro Paese mi dispensa da una qualsiasi elencazione dei suoi titoli accademici e della enumerazione dei testi di maggior successo pubblicati, in particolare su avvenimenti e personaggi italiani. Nel significargli la nostra viva gratitudine per essere qui fra noi gli rivolgo, anche a nome dell'Amministrazione comunale di Brindisi, il saluto cordiale di felice permanenza nella nostra città, certo di interpretare i sentimenti di tutti i presenti.

  Eguali sentimenti di gratitudine, di ammirazione e d: saluto, rivolgo all'egregio dott. Raffaello Uboldi, noto per le alte doti di scrittore e di giornalista, anche per l’unanime apprezzamento riscosso per la ricostruzione storicorievocativa del 25 luglio e dell'8 settembre 1943, curata recentemente per la Rai. Un grazie ancora a “Quotidiano” ed un saluto cordiale a tutti i presenti, con particolarissimo riguardo ai giovani che numerosi affollano questa sala, con l'augurio che anche questa lezione di storia serva per la loro ulteriore crescita culturale e civile.

 

 

Antonio Maglio, vicedirettore di «Quotidiano»

A nome del giornale, ringrazio il sindaco e tutti quanti voi

Mi associo a quello che ha detto il dotto Arina soprattutto per quello che riguarda i giovani. Aggiungo che generalmente essi affollano le conferenze - il Provveditore Campanelli lo sa - quando queste si svolgono di mattina e quindi sono un'ottima occasione per affrancarsi dalle lezioni o da qualche interrogazione pericolosa. Non si scopre niente di nuovo a dire questo: ognuno di noi lo ha fatto. Quando ero studente io si scioperava per l'Alto Adige, e molti non sapevano nemmeno dove fosse e perchè si scendesse in piazza. Il fatto che voi studenti di Brindisi siate qui di pomeriggio, e così numerosi, vuoI dire che siete venuti solo per imparare. E il giornale della città è lieto di potervi offrire questa occasione.

  Per l'ennesima volta nella sua esistenza, dunque, Brindisi giunge all'appuntamento con la storia. Questa città ha sempre avuto nei secoli una posizione e una funzione strategiche: porta aperta sull'Oriente durante l'impero romano, scalo di partenza di tutte le spedizioni verso le altre sponde del Mediterraneo fin dal tempo delle Crociate. Ad un tratto, per uno dei tanti casi inestimabili del destino, diventa per una manciata di settimane capitale d'Italia. Questo evento innesca una serie di circostanze storiche e politiche che sono diventate sedimentazione culturale ma sulle quali bisogna ancora indagare. Ecco perchè il giornale cittadino ha voluto portare qui studiosi della levatura di Denis Mack Smith e di Raffaello Uboldi: ci sono ancora troppe ombre sul Regno del Sud e sul ruolo avuto da Brindisi, che non fu solo la tappa finale di quella discutibile fuga del re da Roma.

Non sono uno storico, anche se la storia esercita su di    me un fascino particolare, perciò mi limito a dire che gli eventi maturatisi in questa città nella tarda estate del 1943 rappresentano una svolta. Un re fuggiasco arriva a Brindisi incalzato da tragiche circostanze; lo accompagnano un capo del governo di cui quel re non si fida e un figlio di cui si fida a metà perchè lo considera inadatto alle cose di Stato; e lo accompagna la consapevolezza che i vecchi alleati, i tedeschi, lo ritengono un traditore e che i nuovi, gli anglo-americani, avrebbero chiesto prima o poi non certo la sua testa, ma la sua corona sì.

Il futuro è greve di incognite, come irto di errori è stato il passato. Eppure è proprio a Brindisi che quel non più giovane erede al trono, incapace di ribellarsi alla disonorevole fuga da Roma, comincia a studiare da re e a tentare di restituire al Paese e alla sua dinastia quella credibilità che suo padre con le sue scelte aveva compromesso. È dal periodo di Brindisi che il nuovo esercito italiano si ricostituisce per andare a combattere al fianco dei nuovi al1eati dei quali sarà inferiore per numero, addestramento e armamento, ma non per valore. Ed è dai giorni di Brindisi che partono le nuove consapevolezze  democratiche, che prendono forma e sostanza i partiti.

È vero, la caduta del fascismo e la firma dell'armistizio avevano aperto la strada verso nuove frontiere, ma consentitemi di considerare il Regno del Sud come uno spartiacque tra il prima e il dopo. Non lo dico animato da spirito campanilistico, ma perchè quel Regno di cui Brindisi fu la capitale rappresenta molto di più, nella storia recente del nostro Paese, di una semplice coincidenza, se vogliamo di un gioco del destino. lo vorrei che quello slancio verso la rinascita, che partì proprio da questa città, tornasse su di essa come momento di riflessione sul domani e come proposito di riscatto, Brindisi, come tante altre città di questo Mezzogiorno che ha vissuto fasti e nefasti del l'industrializzazione forzata e la vergogna della Politica senza ideali, non sa dove andare. C'è bisogno del contributo di tutti per trovare la strada. La ricerca è impossibile se non si conosce in che modo è stato possibile uscire da altre situazioni drammatiche, come ci si è rialzati dopo essere caduti. Il futuro, il più grande dei sogni, ha bisogno del passato. Siamo qui anche per questo. Vi ringrazio.

 

 Denis Mack Smith

Buona sera a tutti voi. Spero che tutti voi possiate capire il mio italiano piuttosto scorretto. Io farò del mio meglio per farmi comprendere.

  Il settembre 1943 è stato un periodo molto drammatico nella storia d'Italia. Forse non c'è stato mai un momento più disastroso. La Sicilia è perduta, i tedeschi hanno occupato il Paese e l'esercito italiano vive un processo di disgregazione. lo ho pensato che oggi la cosa migliore che potessi fare fosse quella di parlare del Regno del Sud dal punto di vista di uno straniero, dal punto di vista cioè degli alleati anglo-americani. Mi pare che questo sia un aspetto poco conosciuto in Italia e tuttavia, secondo me, contiene qualche lezione piuttosto importante. Il re arrivò a Brindisi il l’8 settembre. Il giorno prima era avvenuto lo sbarco degli americani e degli inglesi a Salerno. Era il primo sbarco degli alleati sul continente europeo. Un momento di grandissima importanza. Essi trovarono il re che regnava sul Regno del Sud. Il grande problema per lui e per tutti era di capire come uscire onorevolmente dalla guerra; se era possibile allearsi con la parte vincente, quale che fosse, con il minor danno possibile per il Paese; come recuperare il prestigio dell'Italia ed ottenerne l'inserimento fra le nazioni vincitrici. Ma in principio nessuno sapeva come affrontare questi problemi ed il Regno del Sud è incominciato piuttosto male.

 Tre date sono molto importanti: il 25 luglio, giorno in cui avvenne l'allontanamento di Mussolini dal governo; il 3 settembre, giorno in cui il re firmò l'armistizio con il generale Eisenhower e con gli americani; il 9 settembre, giorno in cui il re partì da Roma alla volta di Brindisi, la cosiddetta fuga da Roma. Queste tre date segnarono altrettanti momenti necessari: l'allontanamento di Mussolini, l'armistizio e la fuga da Roma per costituire un governo in libertà. Ma tutto ciò accadde in modo piuttosto approssimativo e quasi incidentalmente. Tutti e tre questi fatti ci aiutano a comprendere 'perchè il Regno del Sud è cominciato non nel modo migliore.

Con l'armistizio del 3 settembre firmato in Sicilia, il re promise agli alleati di combattere contro Hitler, il suo alleato di ieri, e di favorire l'invasione degli anglo-americani. Ma il re sperava di restare ancora a Roma tanto che, come contropartita dell'armistizio, chiese al generale Eisenhower uno sbarco non all'altezza di Napoli ma di Roma, per poterne uscire indenne. L'obiettivo era quello di costringere i tedeschi a lasciare il Centro d'Italia e di muoversi verso le Alpi. Il re chiese ed ottenne da Eisenhower il permesso di prendere alcune divisioni dallo sbarco di Salerno per trasferirle nelle vicinanze di Roma Badoglio garantiva di aiutare l'operazione per salvare Roma. Con essa la guerra sarebbe quasi finita per l'Italia, e questa era la speranza di tutti. Purtroppo, ci fu un primo disguido disastroso. I due sbarchi dovevano avvenire il 9 settembre a Salerno e a Roma, ma il giorno prima Badoglio, in un momento di panico, denunciò l'armistizio che aveva firmato cinque giorni prima e cancellò lo sbarco a Roma, con grande costernazione per gli alleati. Questa decisione portò alla mancata difesa di Roma ed al trasferimento del re e del governo qui a Brindisi.

  Purtroppo, il re partì da Roma - doveva farlo ed io non discuto questo - senza lasciare alcun ordine all'esercito.

Come continuare: combattere con gli alleati contro i tedeschi o ritirarsi nell'Abruzzo? Un semplice ordine avrebbe potuto far arrivare centinaia di migliaia di soldati nel Regno del Sud, con un vantaggio enorme per il governo del re. Si poteva anche resistere a Roma perchè in quella zona gli italiani erano in numero molto superiore rispetto ai tedeschi. La notte tra 1'8 ed il 9 settembre i generali telefonarono a Roma per sapere che cosa fare. Ma il re non c'era e non aveva lasciato alcun ordine perchè troppo preoccupato a mettersi in salvo insieme al governo.

  Molti generali italiani erano sicuri che si poteva difendere Roma e forse questo sarebbe stato il momento migliore per tentare di cambiare la posizione dell'Italia schierando l'esercito contro i tedeschi. E' stata una svista quasi casuale perchè sappiamo, invece, che un ordine del genere era stato dato alla flotta, che si era posta in salvo, con grande fortuna degli alleati, i quali senza la flotta italiana sarebbero stati in grande difficoltà nel Mediterraneo. Ma all'esercito non era stato dato alcun ordine per qualche motivo che ancora oggi è quasi impossibile spiegare. Se l'esercito avesse avuto la possibilità di mettersi in salvo, senz'altro la guerra sarebbe durata molto meno e non diciotto mesi, con danni così gravi all'intero Paese.

Un'altra cosa che fa pensare è che il re e Badoglio, capo del governo, hanno avuto sei settimane di tempo, dopo l'allontanamento di Mussolini, per poter organizzare le cose. Hanno avuto il tempo per pensare se cambiare atteggiamento nei confronti dei tedeschi, se combattere a Roma, se coordinare i piani con gli alleati, se discutere di un armistizio. Ma in quelle settimane .non hanno fatto niente. Un'altra cosa difficile da spiegare è che mentre i tedeschi avevano piani per tutte le eventualità, il governo italiano non aveva alcun piano, e da questo si capisce che qualche cosa di drammatico doveva accadere senz'altro. Io non vorrei incolpare il re di questo, ma è evidente che ci sono stati dei casi favorevoli all'Italia e sono stati buttati via sconsideratamente.

Forse il primo sbaglio è accaduto proprio nel momento del licenziamento di Mussolini. il 25 luglio molti generali italiani pensavano che se il re avesse dichiarato subito guerra alla Germania sarebbe stata una cosa facilissima. So che è enormemente difficile cambiare in un momento così, ma potrei elencare tutti quelli che sapevano come stavano le cose in quei giorni e che erano d'accordo su questo punto. Non soltanto Bonomi a Roma con il Comitato di Liberazione Nazionale, non soltanto i partiti di sinistra ma, fra i generali, il capo di stato maggiore Ambrosio, il suo vice, generale Francesco Rossi, il gene rale Carboni, che aveva il comando di tutte le truppe a Roma, il generale Castellano, il generale Utili, dello stato maggiore dell'esercito. Tutti hanno visto che il 25 luglio c'erano P9chissimi tedeschi in Italia: quelli che combattevano contro gli alleati in Sicilia non potevano fare niente, e Roma disponeva di un numero s periore di soldati italiani. Purtroppo, il re agì in modo opposto: invece di dichiarare guerra ai tedeschi, disse che la guerra contro gli alleati sarebbe continuata. Su questo si può anche discutere, ma è un, fatto che, giudicato retrospettivamente, si èrivelato un disastro.

 Come si può spiegare questa decisione? L'ipotesi che sembra più verosimile è che il re, giustamente si può dire, ha 'tentato di evitare la guerra totale, di rimanere neutrale. Egli voleva uscire indenne dal conflitto lasciando che gli alleati sbarcassero in Francia o arrivassero sui Ba1cani e non in Italia. Non si può incolpare un capo di Stato per questa decisione, ma si può criticare il suo realismo.

 Se questa ipotesi è giusta, spiega quasi tutto: il ritardo nel domandare un armistizio; il rifiuto, alla fine, di seguire l'armistizio; spiega perchè niente fu preparato nei quarantacinque giorni tra l'allontanamento di Mussolini e l'armistizio; spiega perchè il re non fece niente per tentare di salvare Mussolini. Questi fu messo in prigione, ma in un posto dove i tedeschi avevano la possibilità di liberarlo. Perchè il re non pensò di portare Mussolini con sè nel Sud?

  Tutte queste cose lasciarono un po' di amaro nel generale Eisenhower. Il re e Badoglio avevano firmato l'armistizio, lasciando intendere di voler aiutare gli alleati nello sbarco a Salerno, ma poi non fecero niente, anzi resero lo sbarco più difficile, perchè indussero gli anglo-americani a dirottare molte truppe a Roma, ma poi all'ultimo momento cancellarono lo sbarco a Roma. Tutti questi misteri spiegano perchè il Regno del Sud sia cominciato con una mutua sfiducia tra il re e gli anglo-americani. Il re non capiva la strategia degli alleati ai quali lui e Badoglio sembravano quasi una continuazione del fascismo, visto che combattevano al fianco dei tedeschi.

  Mi pare che il re rifiutando di difendere Roma e di dare ordini all'esercito fece la scelta peggiore. Egli arrivò a Brindisi senza nemmeno un ministero. Non telefonò nemmeno ai ministri, a Roma, per avvertirli che egli andava al Sud. Questo fu un altro disastro. Questo spiega perché Eisenhower, per esempio, abbia preferito spedire munizioni a Tito e non a Badoglio. Quest'ultimo chiese di creare un esercito nel Sud, ma gli alleati non erano del tutto convinti che questo esercito sarebbe stato molto di aiuto.

  Per sostituire Mussolini il re scelse Badoglio, che era stato veramente un fascista convinto. Egli si faceva chiamare duca di Addis Abeba; fu per venticinque anni uno dei più importanti gerarchi del fascismo. Il re non scelse Caviglia, un altro maresciallo d'Italia, ma scelse Badoglio perchè riteneva - lo diceva ai suoi aiutanti di campo - che Caviglia fosse troppo anglofilo, ed egli voleva uno che non lo fosse perchè voleva tenere una posizione equi distante fra le parti in guerra. E questo, mi pare, spiega molte cose.

            Un altro malinteso fu dovuto alla incapacità di valutare bene, in Italia, la strategia degli alleati. Ancora oggi, in molti libri di storia scritti qui non si dice che la strategia degli alleati era tutt'altro rispetto a ciò che si è creduto di essa. Gli alleati hanno guardato alla campagna italiana come ad un campo secondario, perchè la loro guerra era contro Rider e proprio questo ha voluto dire lo sbarco in Normandia, che avvenne pochi mesi dopo. La campagna d'Italia era un diversivo per attrarre i tedeschi in Italia, non per espellerli. Il re chiese spesso ad Eisenhower perchè la guerra non si concludesse più in fretta e fosse cosìlenta. Il re ha criticato il coraggio degli alleati e la loro capacità militare senza sapere che questa era una cosa decisa molti mesi prima, a Washington, come la tattica migliore da adottare. Si doveva prendere Napoli perchè il suo porto era importante, l'aeroporto di Foggia perchè era importantissimo per le missioni contro i Ba1cani, contro le fabbriche del sud della Germania e contro i giacimenti petroliferi della Romania; ma non era necessario preoccuparsi troppo di arrivare alle Alpi. Forse questa decisione si può giudicare male, e naturalmente l'Italia ha sofferto per questo, ma se non si capisce questo, non si può. capire bene quello che gli alleati volevano. Stranamente il re criticava gli alleati perchè non erano sbarcati a Roma. Li criticava anche quando essi tentavano di fare proprio questo, secondo la richiesta dello stesso re. Ma fu proprio il re a fermare questo sbarco mettendo a repentaglio, in questo modo, anche lo sbarco a Salemo.

 La strategia decisa a Washington era quella di prendere Roma, ma di non preoccuparsi eccessivamente se non era possibile farlo subito. Lo si doveva fare soltanto se ci fosse stato un appoggio determinante da parte delle forze italiane. Soltanto a questa condizione la campagna nella penisola si sarebbe conclusa in fretta. Ma questo appoggio non venne perchè l'esercito a Roma si disgregò. La flotta, invece, fu un elemento di prim'ordine per le nazioni alleate; le altre armi lo furono molto meno.

  Vinta la battaglia a Napoli e a Salemo, l'obiettivo era quello di contenere i tedeschi. Quando dico che il Regno del Sud è cominciato male io mi riferisco alla sfiducia esistente tra una parte e l'altra. Andando a Brindisi il re poteva prendere Mussolini con sè, come suo prigioniero, ma non lo fece. Anzi, il re continuava a parlare piuttosto bene di Mussolini ed anche questo non piaceva molto ai suoi nuovi alleati. I suoi consiglieri a Roma erano fascisti: Ambrosio, Roatta, Badoglio stesso non erano certo il simbolo della fine del fascismo. Mi pare che «La Gazzetta del Mezzogiorno»  il giorno dopo l'allontanamento di Mussolini, titolasse: «Cambio della guardia». Questo voleva dire che non era una cosa del tutto sconvolgente; che si trattava solo di un cambio della guardia all'interno del fascismo, dovuto al fatto che Badoglio, Dino Grandi ed altri avevano avuto il sopravvento su Mussolini.

 Ma pur non avendo fiducia di Badoglio e del re, gli alleati si rendevano conto chiaramente che essi erano l'unica amministrazione in grado di funzionare o che poteva funzionare subito in Italia. Rappresentavano l'unica possi bilità di evitare l'anarchia. Il re aveva la lealtà dell'esercito, di quella piccola parte della burocrazia che era rinata, della polizia e dei carabinieri.

            L'appoggio dato dagli alleati al re e a Badoglio, cosa che in seguito fu molto criticata in Italia, si spiega in questo Gli alleati a Brindisi avevano un'impressione non molto favorevole del re, che sembrava loro un uomo cui mancava completamente la capacità di decidere. Trovavano Badoglio molto più simpatico ed anéhe più efficiente. Il re era un problema per loro. Anche quando era a Brindisi, quest'uomo si faceva chiamare ancora imperatore di Etiopia, questo poveri no che dopo la perdita dell'Etiopia era rimasto solo re di Albania. Quando gli alleati gli chiesero perchè continuava ad usare questi titoli, egli rispose che senza il Parlamento non poteva cambiarli. In realtà aveva acquisito tanti titoli senza andare in Parlamento per averne il consenso. Quindi, è particolarmente strano che citasse questa istituzione, che egli stesso aveva abolito molti anni prima. Gli inglesi speravano che il re allargasse il governo per includere i partiti democratici e liberali: i democratici cristiani, j socialisti e i liberali, naturalmente. I comunisti ancora non c'erano ed il loro arrivo era atteso.

  L'altra curiosità di questo re è che parlando con gli alleati egli diceva che gli italiani non sapevano governarsi, che non erano capaci di decidere, insomma che vrano un popolo inadatto all'autogoverno o alla democrazia. In particolare, egli sosteneva che gli italiani non avrebbero dovuto avere mai la possibilità di votare per decidere se la monarchia dovesse continuare o meno. Badoglio diceva le stesse cose. Evidentemente, avevano deciso insieme di dire agli alleati che soltanto la monarchia poteva governare l'Italia. Ma queste affermazioni contro gli italiani non erano molto bene accettate dalla Commissione di controllo. Non erano un buon segno che il re fosse veramente all'altezza della situazione.

 L'altro punto di divergenza era che il re continuava a non voler dichiarare guerra alla Germania. Anche dopo che era arrivato a Brindisi, per molto tempo rifiutò di aprire le ostilità contro gli ex alleati, e questo con grande sorpresa degli anglo-americani, i quali avevano visto che i tedeschi, anche senza dichiarazione di guerra, fucilavano i soldati italiani catturati. Ma il re continuava a rifiutare di dichiarare guerra, anche quando questa era l'unica possibilità che aveva di schierarsi al fianco dei nuovi alleati. Questa è una cosa ancora misteriosa. Diceva che non poteva dichiarare guerra senza il Parlamento. Però, senza il Parlamento, egli aveva dichiarato guerra contro l'Inghilterra, contro l'Etiopia, contro l'Albania, contro la Francia, contro la Russia e contro l'America. Allora perchè non poteva combattere contro i tedeschi senza il voto di un Parlamento che non esisteva? Era una scusa futile che non fu molto apprezzata. Soltanto un mese dopo che era arrivato qui a Brindisi, accettò di dichiarare guerra alla Germania. Era il 13 ottobre. Aveva capito che soltanto così poteva stare alla pari con gli anglo-americani. D'altra parte, era l'unico modo per alleviare le condizioni della resa e l'unico modo per salvare la dinastia da una ventennaIe compromissione con il fascismo. Può darsi che il suo temporeggiamento si spieghi con il fatto che volesse negoziare qualche cosa in contropartita. Ma questo sarebbe stato un tentativo inutile. Quindi, si tratta di una spiegazione che non mi persuade.

 Un altro punto di divergenza era l'abdicazione. Carlo Alberto aveva abdicato per salvare la nazione e per salvare la sua dinastia. Perchè Vittorio Emanuele m rifiutava? In passato aveva detto spesso di volerlo fare, ma soltanto quando qualcuno toccava le sue pr rogative di re, non lo disse quando era in pericolo la nazione, e nemmeno quando qualcuno gli ricordò che soltanto senza il re i partiti avrebbero potuto mettersi insieme in un governo ampio contro la Germania. Se avesse abdicato in qualsiasi momento, anche il 25 luglio, gli sarebbe succeduto Umberto, che era molto più popolare di lui e che forse avrebbe salvato la dinastia. Senz'altro, avrebbe fatto molto bene al governo del Regno del Sud che ha fatto passare quei mesi solo discutendo se il re dovesse andare via o no. Purtroppo, per gli alleati, tutti erano in disaccordo. Qualcuno voleva Umberto, qualcun altro voleva il princi

pe di Napoli, l'attuale Vittorio Emanuele, qualcun altro la reggenza di Maria Josè, la regina, qualcun altro voleva la Repubblica. Non si riusciva ad accordarsi su questo. Allora tutti nel Sud invece di fare qualcosa per quella terribile guerra, passarono dei mesi a dibattere cose sterilissime. Gli inglesi e gli amerieani erano grandemente sorpresi del rifiuto del re di definire alcunché pur di conservare la sua dinastia. Ma mi pare che la sua sia stata una valutazione errata, che ha fatto molto male al Paese.

Altro punto fondamentale era la necessità di allargare il governo, con l'inclusione dei partiti antifascisti. Questo era consigliato da tutti, da Eisenhower, dagli alleati, dal Comitato di Liberazione a Roma e a Milano, da tutti i partiti antifascisti a Napoli e a Brindisi, anche dallo stesso

Badoglio. Badoglio addirittura coraggiosamente andò dal re per dirgli che soltanto la sua abdicazione poteva aiutar­lo a costituire un governo stabile per il Paese. Anche Churchill voleva che il re andasse via. Tutti continuano a pensare che Churchill ha tentato di salvare il re. In realtà egli voleva che il re allargasse il governo; a poco a poco si convinse che con Badoglio si poteva discutere, ma che era il re a creare difficoltà. L'ostinazione del re alla fine rese impossibile la sua permanenza.

Benedetto Croce era un uomo di destra, un conservatore liberale, un monarchico convinto che nel plebiscito del 1946 votò per la monarchia. Ma del re scrisse: «Il re, dopo Mussolini, rimane il vero ed il maggiore rappresentante del fascismo. Pretendere che l'Italia conservi il presente re è come pretendere che un redivivo resti abbracciato con un cadavere. Lui doveva andare via come atto di sensibi­lità morale. Il re si è congiunto corpo ed anima al fasci­smo ed ha assunto una responsabilità maggiore di Mussolini. Mussolini era un povero diavolo - diceva sem­pre Croce - ignorante, corto di intelligenza, ubriacato da facili successi demagogici. laddove il re era stato accura­tamente educato ed aveva governato un'Italia libera e civi­le. Il re sta tentando di ricostituire in Italia, nel Regno del Sud, un regime fascistico per proteggere la dinastia». Questo venne detto da un monarchico convinto. È strano che il re non abbia avuto la sensibilità di capire che se avesse abdicato sarebbe stato molto meglio per lui e cer­tamente per suo figlio, per i partiti e per l'Italia.

            Carlo Sforza arrivò con l'apprezzamento di tutti. Egli era stato il capo dell'antifascismo esule. Egli aveva molta esperienza ed era venuto dall'America per portare il suo contributo. Era un repubblicano, ma volle continuare la monarchia. Tornò in Italia soltanto dopo aver convinto gli americani e gli inglesi che lui voleva aiutare Badoglio e il re. Promise, sulla sua parola d'onore, di aiutare il governo, di consolidare il Regno del Sud. Purtroppo, arrivando nel Sud cambiò radicalmente; in cinque mesi non fece altro che apportare altra confusione in questo assurdo problema istituzionale: se era necessaria o meno una monarchia. Ma lascio da parte questo argomento, che è sicuramente importante ma non tanto.

In tutti questi torbidi la politica alleata era piuttosto chiara. Naturalmente, c'erano diversi punti di vista anche tra gli americani e gli inglesi. Ma Churchill, Rooswelt, Eisenhover e i generali inglesi erano d'accordo sul fatto che il re dovesse andar via, ma soltanto quando fosse tor­nato a Roma e quando gli italiani lo avessero deciso. Fino ad allora era meglio che la situazione restasse così com'e­ra. Eisenhower andò più in là. Egli disse che soltanto con un ampliamento del governo in senso più democratico e liberale sarebbe stato possibile consentire al Regno del Sud un allargamento del suo territorio fino a Salerno. Ma i partiti non erano 'ancora arrivati ad un accordo. Qualcuno voleva addirittura una specie di luogotenenza del re. Ma non c'era intesa. In tale situazione era molto difficile per gli alleati assumersi delle responsabilità con una ammini­strazione della quale non si fidavano.

Fu soltanto con l'arrivo di Togliatti e dei comunisti in Italia che si risolse questo problema. Gli alleati furono molto grati a Togliatti perchè alla fine costrinse tutti a for­mare un governo sotto il re. Di questo realismo nessun altro era stato capace. Soltanto nel marzo, quando arrivò Togliatti, si mise fine a tutti i battibecchi tra i partiti che in tempi normali sarebbero stati una cosa ottima, ma che in quel momento di guerra erano una cosa deteriore. E così, con Togliatti, ebbe fine ciò che Giorgio Bocca chiama «la tragicommedia del Regno del Sud». Forse è stata una commedia, ma io ritengo sia stata anche una tragedia. Certo, fu una situazione che non contribuì a risolvere i problemi del Paese, anche se grazie ad essa si impose un principio: che la classe politica fascista sparisse. Purtroppo, Badoglio e il re, che pure erano una compo­nente della classe politica del fascismo, per il momento era necessario che restassero a capo del governo fino a quando non si fosse arrivati a Roma per consultare Bonomie gli altri politici. Ma a Roma vi erano ancora i tedeschi. È per questo che gli alleati continuarono ad appoggiare il re. Per lo stesso motivo gli americani appog­giarono l'imperatore del Giappone, che non era certo un uomo molto piacevole ma era un uomo con cui si poteva agire e di cui ci si poteva fidare, almeno fino ad un certo punto.

Nel Regno del Sud non c'era una situazione in questo senso e forse non poteva verificarsi. Non stava certamente agli alleati decidere che tipo di governo doveva esserci in questo Regno, né stabilire se era necessario instaurare una monarchia o una repubblica. Qualsiasi intervento politico degli alleati sul governo avrebbe senz'altro creato delle divisioni enormi. E quasi certamente sarebbe stato con­troproducente. Tutti si sarebbero opposti a ogni tentativo di imporre una soluzione qualsiasi. Tutti i partiti chiedeva­no agli alleati di fare qualcosa, ma non erano sinceri, per­chè se gli alleati fossero intervenuti io sono sicurissimo che sarebbe stata la cosa peggiore. Ripeto che non c'era un appoggio di Churchill e di Roosvelt per la monarchia in sé: essa era considerata soltanto una cosa utile per il ,momento. Gli inglesi e gli americani erano pronti ad un cambiamento radicalé a Brindisi ma solo se gli italiani lo avessero voluto veramente.

Posso citare, come ultima cosa, una breve frase che ha una importanza simbolica. lo sono rimasto molto sorpreso quando ho trovato questo documento tra quelli inglesi. È stato scritto dal primo ambasciatore italiano dell'Italia liberata a Londra. Egli dice che «all'Italia farebbe bene avere un po' di repubblica ed anche un po' di comuni­smo». È un'idea che io non mi sarei aspettato di trovare. Mi ha sorpreso e non so spiegarla, ma vale la pena soffer­marsi su questo.

Un'altra cosa che non si capì bene fu la venuta di Togliatti da Mosca in Italia. Egli sorprese tutti perchè, essendo comunista, disse: «Andiamo con il re». Questo fu uno shock per tutti, qui. Ma questo è realismo, una cosa che non c'era nel Regno del Sud, né da parte di Badoglio, nè da parte del re, ma nemmeno da parte dei parti ti che pure nel senso del realismo tentavano di ricostituirsi.

 

Franco Arina, sindaco di Brindisi

Questo lungo applauso dimostra tangibilmente l'apprezzamento che c'è stato per questa lezione di storia che il prof. Denis Mack Smith ci ha impartito. Grazie ancora. Adesso cedo la parola al dottor Maglio per delle comunicazioni.

 

Antonio Maglio, vicedirettore di «Quotidiano»

Io aspettavo che da Lecce arrivasse il direttore che so impe­gnato in alcuni problemi da risolvere. Mi dicono che pur­troppo non può venire. Teneva molto a partecipare a que­sta manifestazione, che ha voluto, lui brindisino, per la sua città. Mi ha inviato un messaggio chiedendovi di scu­sarlo, ed è quello che faccio. È qui presente, però, il presi­dente del Consiglio di amministrazione di «Quotidiano», dotto Renato Minafra, il quale porterà il saluto in qualità di editore del giornale.

 

Renato Minafra, presidente del Consiglio di ammini­strazione di «Quotidiano»

 

Io vorrei scusarmi per il ritardo, ma è stato complicato arrivare fin qui. Adempio ad un impegno preso l'anno scorso e che il Consiglio di amministrazione ha voluto fosse rispettato. L'anno scor­so, in occasione della presentazione della ristampa della «Guida di Brindisi» di Pasquale Camassa, annunciai che avremmo fatto qualcosa di importante per questa città che il nostro giornale ha particolarmente a cuore. Penso che con questo tipo di manifestazione «Quotidiano» abbia mantenuto la sua promessa. Grazie.

 

Raffaello Uboldi

Parlare dopo Denis Mack Smith, il quale ha detto tante cose, e le ha dette così bene, per me è.

un compito difficile. Vorrei aggiungere che io non sono uno storico, quanto meno uno storico di professione, ma soltanto un giornalista che qualche volta si occupa di sto­ria. Vorrei aggiungere che sono parecchi in Italia i giorna­listi che si danno questo compito, e qualche volta anche con risultati apprezzabili. Vorrei citare, tra le altre cose, l'ultimo libro di Gianni Rocca, vicedirettore di Repubblica, che si intitola «Avanti, Savoia» e che, per la prima volta, tratta, fuori dal mito, delle guerre del Risorgimento nazionale.

Vorrei aggiungere che scrivendo o comunque trattando di storia, ho avuto delle sorprese. Le ultime mi sono venu­te dalle due trasmissioni che ho curato per la seconda rete televisiva insieme all'amico e collega Arturo Gismondi, che si intitolano una «Cinquant'anni dopo il 25 luglio 1943" e l'altra «L'8 settembre successivo». La prima sor­presa è stata assai gradevole per noi perchè le trasmissioni hanno registrato un'audience di due milioni di spettatori in media. È chiaro che non eravamo a «Domenica in», ma bisogna considerare che si trattava di una trasmissione di storia, che per giunta andava in ond  in seconda serata, alle 22.30. E stata la trasmissione che sulle tre reti televi­sive ha riscontrato il maggior successo, con un'audience media dell'11%. Questo sta a significare che la storia inte­ressa tutt'oggi i telespettatori, anche quelli della fascia media.

La seconda sorpresa è venuta dalle telefonate e dalle let­tere che abbiamo ricevuto. È chiaro che parlo sempre di spettatori di cultura media, ma abbiamo verificato che a distanza di cinquant'anni molti non conoscevano ancora tutta la dinamica dei movimenti e le ragioni che li aveva­no prodotti. La terza sorpresa, sempre gradevole, è stata che cinquant'anni dopo abbiamo potuto dire alcune cose.

senza sollevare scandalo.

Parliamo del 25 luglio 1943. I personaggi che nella notte tra il 24 e il 25 luglio misero in minoranza Mussolini all'interno del Gran Consiglio, si sono sempre trovati schiacciati tra due tipi di storiografia: la prima, che pos­siamo definire fascista-repubblicana, secondo la quale questi personaggi erano dei volgari traditori e quindi meri­tevoli soltanto di fucilazione, come accadde a Galeazzo Ciano e ad altri dopo il processo di Verona; la seconda storiografia, che possiamo definire antifascista, è quella secondo la quale questi personaggi erano dei semplici cialtroni che agirono solo per salvare la loro pelle. Abbiamo, invece, detto ciò che ci sembrava esatto, cioè che questi personaggi, nel quadro di quello che erano, cioè dei fascisti, avevano comunque una vena di senso dello Stato e di patriottismo che li indusse a cercare di liberarsi di Mussolini per trarre l'Italia dagli scogli della guerra. E furono personaggi che pagarono in proprio: Dino Grandi con l'esilio, Giuseppe Bottai nella legione straniera, Galeazzo Ciano fucilato a Verona insieme ad altri.

Vorremmo continuare su questa linea, e le prossime tra­smissioni, che andranno in onda nella prima metà dell'anno a venire, riguarderanno proprio il Regno del Sud - ed è questa una delle ragioni per cui sono molto lieto di essere qui questa sera -, il processo di Verona, l'uccisione di Giovanni Gentile e la liberazione di Roma. Questa è la programmazione per la prima metà dell'anno, poi vedremo per la seconda metà.

Per quanto riguarda il Regno del Sud faremo il possibile - e credo che saremo in grado di farlo - per trarre questo periodo di storia italiana non dico dall'ombra ma dalla penombra nella quale, tutto sommato, è rimasto rinchiuso.

La Resistenza, il vento del Nord furono importanti, ma ci fu anche qualcosa che maturò a Brindisi, a Salerno, fino alla liberazione di Roma nel giugno del 1944: la ricostitu­zione, in qualche modo, di uno Stato; la collaborazione tra i partiti; il cosiddetto «governo dell'esarchia», che fu l'ulti­mo governo Badoglio prima della liberazione di Roma, che prelude al patto costituzionale tra i partiti dell'antifa­scismo italiano; la costituzione di un primo nucleo, certa­mente ridotto e con molti problemi alle spalle, di un eser­cito italiano, che combatté, e anche bene, a Montelupo, subendo perdite molto dolorose quando si trovò un fianco scoperto; che combatté sulle pendici di Cassino, a Volturno, e che fu il primo nucleo del cosiddetto Corpo Italiano di Liberazione, una serie di unità che raggiunsero il Nord assieme agli alleati.

Ritengo importante dire questo anche per ricollegarmi all'8 settembre. lo mi rendo conto che ci fu ritardo, sfa­scio, caos, che ci furono, per esempio, generali che dopo vent'anni di dittatura non erano più abituati a pensare in proprio e a prendere decisioni in proprio. Mi rendo conto che dal 25 luglio, giorno della caduta di Mussolini, all'8 settembre si potevano fare molte cose. Qualcosa, comun­que fu fatta: per esempio, nei negoziati con gli alleati si cercò di strappare un po' di più di una resa incondizionata. Non era sicuramente facile l'operazione di resa: vi erano sessanta divisioni italiane divise tra l'Italia, i Balcani, la Grecia, l'Egeo, la Frància meridionale. Non era facile trar­re il meglio da questa difficile situazione, nella quale, credo per la prima volta nella storia, un paese si è trovato.

Ma ci furono anche altre cose. Non ci fu soltanto lo sfa­scio, non ci furono soltanto i 600 mila italiani prigionieri in Germania, molti dei quali arresisi senza combattere. Ci fu la Marina, che rese un servizio inestimabile al Paese scendendo compatta verso il Sud, verso Malta. Certamente, fu una decisione amara, per gente che fino al giorno prima aveva combattuto su un certo fronte, trovarsi improvvisamente su un altro fronte. La Marina rese al Paese un servizio diretto e un servizio indiretto. Rese un servizio indiretto perchè gli alleati, al momento dello sbarco di Salerno - che a seguito della reazione tedesca per poco non erano stati costretti a reimbarcarsi -, almeno non si trovarono di fronte anche i cannoni della flotta ita­liana.In quel caso la situazione sarebbe stata davvero molto dura. Rese un servizio diretto quando partecipò a molte delle operazioni militari nel Mediterraneo, scortan­do convogli e affrontando anche scontri con unità tede­sche. Ci fu il caso di Cefalonia, dove un'intera divisione, la divisione «Acqui», si fece massacrare dopo aver tentato di combattere i tedeschi e aver dovuto arrendersi soltanto perchè priva di copertura aerea. Ci fu il caso del porto di Bari, liberato con un'azione molto audace da parte del generale Bellomo. lo mi chiedo se a Bari ci sia una strada o una piazza intitolata a questo soldato. Ma, sempre per tentare di delineare il quadro di un contributo che certa­mente non fu il maggiore ma che ebbe una sua importan­za, va ricordato che ci furono la Resistenza, le armi cedute dai soldati italiani sbandati ai partigiani di Tito in Jugoslavia, ai Greci e agli Albanesi, e ci furono le unità combattenti degli ex soldati dell'esercito italiano. lo non so quanti si ricordano che la prima unità ad entrare a Zugabria e a liberarla fu la divisione «Garibaldi-Italia»e che il battaglione «Gramsci» fu tra i primi a collaborare ulla liberazione di Tirana e a entrare in questa città.

Certo, si poteva fare molto di più: si poteva cercare di difendere Roma e non lo si fece. lo ritengo che qui ci furono responsabilità da parte di Ambrosio, di Roatta e di Carboni, che rifiutarono lo sbarco della divisione aereotra­sportata comandata dal generale Ridge, che poi divenne comandante, tra le altre cose, degli americani in Corea e della Nato e che in sottordine aveva come vice-comandan­te Maxwell Taylor. Ci fu perfino l'idea, suggerita da Carboni e sia pure con molta esitazione anche da parte dello stesso Badoglio, di denunciare un armistizio che si riteneva fosse stato annunciato troppo in fretta dagli allea­ti. L'armistizio venne firmato il 3 settembre e reso pubbli­co 1'8 settembre, appena cinque giorni dopo. È vero che c'erano i 45 giorni del governo Badoglio alle spalle, ma ancora si combatteva e si era incerti su cosa esattamente fare. Un paese non esce da una guerra dall'oggi al domani. Era difficile sparare su quei tedeschi con cui si era com­battuto fino al giorno prima. Alcuni ebbero questo graI\de problema di coscienza.

A questo punto si arriva alla mancata difesa di Roma che attribuisco fondamentalmente alla irresponsabilità di generali disabituati a decidere di testa propria. Al re non rimane altra scelta che trasferirsi in una zona libera del territorio nazionale, una zona dove non c'erano tedeschi e nemmeno alleati, per esercitare le sue funzioni di capo dello Stato. Aveva un'altra soluzione: quella di avvolgersi nel tricolore, di mettersi al comando di un reggimento e di farsi ammazzare a Roma. Ed io personalmente credo che i re esistono anche per questo, per farsi ammazzare, se occorre. In questo caso avrebbe salvato la monarchia. Poteva lasciare che a Roma ritornasse il principe Umberto, con il rischio, però, che venisse catturato dai tedeschi che potevano fargli dire tutto quello che voleva­no. Se ne andò, scelse l'unica strada libera, la via Tiburtina, che portava verso Pescara e Ortona Mare e s'imbarcò per Brindisi. lo non la chiamerei «fuga».

Il re certamente non era un personaggio abituato a gesti spettacolari come quello di farsi ammazzare avvolto nel tricolore, ma non era nemmeno un vile. Era un re che aveva alle spalle molti demeriti, tra cui l'adesione al fasci­smo, ma anche alcuni meriti. Scelse Brindisi pensando di porre in salvo il capo dello Stato, il suo eventuale succes­sore Umberto, il capo del governo. Il grande spaventoso errore - ma fondamentalmente fu un errore di Badoglio ­fu quello di dare ordini molto caotici alle truppe che resta­vano a Roma, il cosiddetto «ordine sul tamburo» che era quello di ritirarsi verso l'Abruzzo in un momento in cui le forze italiane, impegnate contro i tedeschi, non erano pro­babilmente in grado di farlo. È vero che il re era il coman­dante dell'esercito, ma lo era formalmente, non era lui che dava ordini di battaglia.

Il re arriva a Brindisi e i già grandi problemi diventano parecchi: riorganizzare uno Stato, un'amministrazione, le banche, la moneta, i trasporti, i viveri e cose di questo genere. Si cercò di negoziare una cobelligeranza con gli ulleati. Certamente si tardò a dichiarare guerra alla Germania, ma contemporaneamente si cercava di ottenere clugli alleati la maggiore cancellazione possibile delle clausole del cosiddetto «armistizio lungo», quello firmato u Malta dai pIeni potenzi ari italiani. Le clausole erano dure, ed era ovvio che fossero tali perché eravamo un paese vinto, ma si cercava di negoziare la nostra parteci­pazione alla guerra con l'ammorbidimento di alcune di queste clausole.

L'altro grande problema era quello di creare un governo di unione nazionale con la partecipazione di persone rispettatissime, di destra o di sinistra che fossero, quali Benedetto Croce, Carlo Sforza, che era tornato in Italia dall'America, e tutti coloro che potevano contribuire alla ricostruzione del Paese.

Questa prospettiva si scontra, qui a Brindisi, con il pro­blema istituzionale. Ripugnava profondamente ai partiti ed ai rappresentanti dell'antifascismo di collaborare con un re che non era responsabile dell'8 settembre ma che sicuramente aveva peccato nei confronti della nazione durante il ventennio fascista. Non era stato certamente il re che aveva portato Mussolini al potere, anche se non firmò il famoso decreto sullo stato d'assedio nei giorni della cosiddetta «marcia su Roma». Mussolini era andato al potere per tante ragioni. C'erano i grandi problemi della riconversione industriale, dell'industria di guerra e dell'in­dustria di pace. C'era il problema dei reduci della Grande Guerra che tornavano, e se erano contadini chiedevano condizioni di lavoro migliori dopo aver servito il Paese sui tanti fronti. C'erano i partiti che non avevano saputo governare questo Paese.

C'era il massimalismo della sinistra, quella sinistra socialista che aveva scatenato il famoso biennio rosso convinta che in Italia fosse possibile creare qualcosa di simile a quello che Lenin aveva fatto in Russia, che fosse possibile una rivoluzione. Era la stessa sinistra massimali­sta che sputacchiava gli ufficiali che tornavano dal fronte dove avevano semplicemente fatto il loro dovere. Questa fu la ragione per cui uno dei fratelli di Sandro Pertini ­personaggio al di sopra di ogni sospetto -, capitano tornato dal fronte, dove si era comportato onorevolmente, aggre­dito e coperto di insulti e di sputi a Savona perché in divi­sa di ufficiale, si iscrisse al Partito fascista.

Questa sinistra massimalista  capace di catture  simpatie dei trinceristi, di quei soldati che tornavano dalla guerra e che chiedevano certe cose ma che al tempo stesso non volevano rinunciare alla dignità di essere stati soldati. Questa sinistra  fu quella che provocò la scissione comuni­sta, nel 1921 a Livorno, mentre c'era già il fascismo trion­fante, e anzichè battersi contro il fascismo giudicò molto più importante creare in Italia un partito sul modello di Lenin.

Ci fu la seconda scissione socialista nel 1922, nei giorni della marcia su Roma: i socialisti italiani si divisero per la seconda volta con i capi storici, Turati e Treves, che rap­presentavano l'ala riformi sta, che se ne andarono e l'ala massimalista rimase. Dov'era la direzione comunista nei giorni della marcia su Roma? Non stava a Roma a difen­dere questo Paese ma era su un treno diretto a Mosca per seguire un  congresso dell'Internazionale comunista, per conoscere Lenin, cosa che veniva giudicata molto più importante che sbarrare la strada al fascismo qui in Italia.

            D'altra parte c'erano dei partiti borghesi che non riuscivano a creare un governo stabile. C'era un partito popolare, che, dopola marcia su Roma avrebbe votato la fiducia al primo governo Mussolini per bocca di De Gasperi che di quel partito era il portavoce. I popolari non riuscivano a mettersi d'accordo con i socialisti, i quali, a loro volta, non riuscivano a mettersi d'accordo con gli altri. Erano i due gruppi più importanti del Parlamento, che avrebbero potu­to dare vita ad un governo stabile.

            Mussolini, quindi era andato al potere anche per gli errori degli altri. Tutto questo non era stato il re a volerlo, egli era sicuramente un sovrano costituzionale che dove­va «regnare ma non governare». Certo, un re ha dei doveri che vanno, secondo me, al di là delle formule. lo ho incomtrato Juan Carlos di Spagna, per due volte, nella pic­co a reggia della Zarzuela, fuori Madrid, per una biografia che scrissi su di lui, pubblicata da Rizzoli insieme alle bi0grafie di Pertini e di Karol Wojtyla. Tra le tante cose che mi riferì nel corso di queste due conversazioni infor­mali, mi disse: «Caro amico, quella spagnola non è una repubblica presidenziale ma poco ci manca». Con questo voglio dire che un re, oggi, deve conquistarsi giorno dopo giorno il diritto di regnare. Vittorio Emanuele III, invece, non era un re del giorno d'oggi. Tra l'altro, aveva alle spal­le il ricordo del padre assassinato a Monza che sicuramen­te pesava su di lui.. Era un personaggio freddo, troppo ligio alle regole costituzionali e meno capace di intervenire al momento in cui avrebbe dovuto agire in proprio. Infatti nel giorno dell'8 settembre non fu capace di uno scatto di fantasia.

Queste sue caratteristiche si erano rivelate particolar­mente gravi nella vicenda del delitto di Matteotti. Quando gli chiesero di intervenire perchè il capo dell'opposizione era stato rapito ed ucciso egli disse: «lo non ho occhi e non orecchie, la Camera ed il Senato sono i miei occhi e le mie orecchie». Quindi, toccava agli altri intervenire. Fu una curiosa presa di posizione anche perchè il Senato era di nomina regia. In ogni caso è strano che dopo che era stato massacrato il capo dell'opposizione, un re si rimetta alle deCisioni del Parlamento e di un governo fascista. D'altra parte, egli era stato re d'Italia e d'Albania e impera­tore d'Etiopia; aveva firmato la dichiarazione di guerra alla Francia e all'Inghilterra, aveva, quindi, pesantissime responsabilità. Pertanto, era molto difficile collaborare con lui da parte dei partiti, per quello che contavano. Per inciso, va detto che alcuni uomini, talvolta, sostenevano di avere alle spalle i partiti e magari non li avevano affatto. Come giustamente ha ricordato Mack Smith, una persona dalla grande autorità intellettuale e morale come Benedetto Croce, che sicuramente non era un comunista ma era un liberale di antico stampo e conservatore, non era antimonarchico ma era contro Vittorio Emanuele III. E molti ritenevano che fosse assolutamente impossibile entrare in un governo Badoglio, perchè questo voleva dire collaborare con il re e mantenere quel tanto che rimaneva in piedi dello Stato fascista.

Tutto questo creò una grande situazione di stallo. Ci fu la proposta ultimati va di Benedetto Croce, ricordata da Mack Smith: abdicazione del re, abdicazione di Umberto, sul trono il giovane Vittorio Emanuele e Badoglio come reggente. Con quello che è successo dopo non so se sareb­bc stata la migliore soluzione possibile.

Si arriva così, nel gennaio 1944, al congresso di Bari dei 1'mrtiti antifascisti e dei Comitati di Liberazione dell'Italia liberata e dell'Italia occupata. Questo congresso pone t\lcune condizioni ultimati ve: elegge i rappresentanti dei sci partiti antifascisti, che sono il Partito comunista, il Partito socialista, il Partito d'azione, il Partito liberale, il Partito dei democratici cristiani e il Partito dei demolabo­risti. Quest'ultimo fu un partito che sparì subito, alla prova elettorale. Gli azionisti, invece, erano la punta di diamante di tutto quello che succedeva in quel momento in Italia.

Era un partito di grandi intellettuali che non ebbe alcun successo elettorale, come spesso succede agli intellettuali, ma che costituì un momento importante sulla linea di quel cosiddetto "socialismo liberale" teorizzato dai fratelli Rosselli, particolarmente importante visto quello che suc­cesse dopo. I suoi rappresentanti si distribuirono nei vari partiti, soprattutto nel Partito socialista e nel Partito repubblicano.

Il Congresso dei Comitati di Liberazione dell'Italia libe­rata e dell'Italia occupata creò una giunta esecutiva che diventa una sorta di governo antigoverno: il governo dei partiti contro il governo Badoglio. Quest'ultimo, qui a Brindisi e poi a Salerno, capeggiò almeno quattro esecuti­vi.

Come si vede, l'abitudine dei governi di breve durata ha avuto in questo Paese una gestazione mqlto rapida, che risale al nascere dell'Italia non più fascista. Ci fu il gover­no dei militari e dei tecnici, il governo dei sottosegretari, che poi diventano ministri, per cui si costituì in governo dei ministri. Si arrivò, infine, al governo dell'esarchia, che era, finalmente, un governo dei partiti. Quindi, vi furono ben quattro governi.

Si continuò per un lungo periodo con questo grave pro­blema istituzionale, che sicuramente - in questo ha ragio­ne Mack Smith - non consentì di creare un potere forte a Brindisi fino a quando due persone non sciolsero il nodo. E le due persone sono De Nicola e Togliatti.

Palmiro Togliatti era stato a Mosca come segretario del Comintern. Aveva vissuto a lungo nell'albergo Lux dove si erano consumati fatti e misfatti incredibili, si era distin­to per la sua intelligenza, per la sua cautela e per il suo opportunismo, che gli aveva consentito di salvare la sua persona nel periodo staliniano, durante il quale tanti altri comunisti, magari anche filostaliniani ossequiosi al capo, venivano tranquillamente massacrati. E molti comunisti italiani vennero uccisi nell'esilio per il più piccolo 'sospet­to. C'è un piccolo episodio che può sembrare una cosa ridicola, ma che è indicativa: un comunista italiano, ope­raio in una fabbrica di formaggi, quando arrivò in Unione Sovietica si accorse che non c'era il gorgonzola, e lo pro­dusse. Ma i sovietici lo accusarono di aver prodotto for­maggio avariato. E lo misero in galera. Dovette interveni­re Togliatti per farIo liberare. Robotti, il cognato di Togliatti, venne bestialmente martoriato e picchiato al punto che gli si ruppe la spina dorsale. Ma Robotti conti­nua a restare fedele fino alla morte, un fedele staliniano e un rodele compagno di viaggi dell'Unione Sovietica. Il comunismo di allora aveva aspetti religiosi e dava perfino del punti alfa Chiesa cattolica, con i suoi martiri per principio.

Togliatti., venendo da Mosca, sapeva una cosa fonda­mentale: che l'Italia era stata assegnata al sistema occiden­tale. E di conseguenza sapeva, almeno in teoria, che in questa Italia non c'era posto per un colpo di stato comuni­sla, a meno che non fosse scoppiata una grande guerra civile C0me quella che infuriò in Grecia. Ma anche in que­sto caso sicuramente ci sarebbe stato un intervento degli allleati  e il Partito comunista sarebbe stato messo fuori legge. L'unico modo di sopravvivere è quello di naziona­lizzarlo e di farIo accettare dalle forze della borghesia italiana, comprese quelle conservatrici. Quando sbarcò a Salerno e arrivò a Napoli, Togliatti aveva a suo meri!o il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell'Unione Sovi tica, con lo scambio di ambasciatori, un fatto che rappresentò un notevole rovesciamento delle alleanze e che dimostra quanto anche Stalin fosse un grande pragma­tico. Con questo precedente alle spalle, Togliatti dichiarò: l) che bisognava andare al governo con il re; 2) che si doveva fare una dichiarazione di fede cattolica da parte degli italiani , perchè l'Italia era - e rimane - un paese cat­tolico; 3) che il governo dei partiti antifascisti aveva il compito fondamentale di organizzare la guerra alla Germania.

            Dopo un mese di tira e molla, l'Italia aveva già dichiara­to guerra alla Germnia. Acquarone, consigliere del ovrano, propendeva per l'attesa per tentare di strappare quante più condizioni possibili agli alleati, mentre Badoglio era favorevole ad entrare in guerra. Alla fine, si entrò senza ottenere nessuna contropartita, ma con le clau­sole dell'armistizio che man mano vennero alleggerite nei nostri confronti. Per esempio, all'Amministrazione italiana vennero restituite tutte le province italiane a sud dei confi­ni settentrionali di Bari, Potenza e Salerno, cosa che con­sentì al governo del Regno del Sud, con capitale Brindisi, di trasferirsi a Salerno, dove c'era la possibilità di meglio organizzarsi.

Togliatti, quindi, prese di contropiede tutti i partiti. Ma questo non sarebbe bastato se non ci fosse stata la media­zione di De Nicola. Badate bene, nel congresso di Bari dei Comitati di Liberazione dell'Italia liberata e dell'Italia occupata si era posto nella maniera più ferma il problema dell'abdicazione del re ma non si era parlato più dell'abdi­cazione di Umberto. Non credo che questo fosse stato casuale: era un piccolo escamotage ed un primo indice di un possibile compromesso tra la persona del re e i partiti. Un Comitato di saggi si recò, allora, dal re e gli disse: «Lei se ne può andare tranquillamente lasciando il trono ad Umberto; la monarchia continua». E il re rispose con quattro parole: «Non ho la persona». Questo significava che non giudicava Umberto capace di regnare e di succe­dergli. Vittorio Emanuele In non aveva alcuna stima del­l'intelligenza di suo figlio Umberto che, invece, dimostròdi averne e di essere capace, diventato «il re di maggio», di conquistare alla monarchia, a quel tipo di monarchia, una notevole popolarità.

Dopo l'arrivo di Togliatti e la decisione dei comunisti di partecipare ad un «governo del re», sdoppiando i suoi rapprentanti nel Regno del Sud, intervenne la mediazione di De Nicola, che propose la soluzione della luogotenen­za, Il re dichiarava la sua disponibilità a lasciare la luogotenenza del regno ad Umberto, una volta liberata Roma se ne sarebbe andato, ma in punta di piedi, in maniera tranquilla. Avrebbe aspettato di tornare a Roma, avrebbe ricevuto il giuramento dei nuovi ministri nelle sue mani, si sarebbe arrivati, insomma, ad una soluzione di compro­messo. Siamo oramai nel pieno del 1944, abbastanza vici­ni alla liberazione di Roma: nel Regno del Sud, con capi­tule Ravello, c'è il governo della esarchia.

Si creò in questo periodo quel sistema di arco costituzio­nale che, con qualcuno al governo e con qualcuno fuori, ma nel quadro del cosiddetto bipartitismo imperfetto, è contina.ato fino ai giorni d'oggi. Tutto questo si creò qui, nel sacl i taliano, per cui mi sembrà importante parlarne!.

Il compromesso dopo tante polemiche, tra i partiti, il re e Badoglio, potrebbe anche far dire a qualcuno - forse a qualcuno che ha una vena di cinismo - che si è fatto mo1to rumore per nulla. In realtà, con l'uscita di scena del re, si preparavano alla lunga ad uscire di scena la monar­chia e ht casa Savoia, che dal 1848 in avanti avevano d terminato in modo abbastanza rilevante l'orizzonte ita­liano. Si voltava una pagina importante.

            Sicuramente si sarebbero dovute voltare altre pagine. Ricorderete la polemica sulla mancata epurazione, sul sopravvivere all'interno dello Stato di una burocrazia che era stata fascista e che si riconvertì molto rapidamente all'antifascismo. Tuttavia si fece qualche cosa di fonda­mentale. Lo si fece qui nel Sud. lo sono lieto, per quanto mi riguarda, di aver potuto contribuire a parlare di questo Regno del Sud, sul quale - ripeto - è caduta una specie di penombra nordica. C'era sempre stata in Italia - e credo che sopravviva ancora - una specie di storiografia savoiar­da: si esaltavano sempre i Savoia, e tutto il resto - i Borboni, il Sud - anche quando c'erano delle cose positi­ve, non esisteva. Dopo l'ultima guerra ci fu una storiogra­fia che si rivolse contro i Savoia. lo credo che a cin­quant'anni di distanza sia doveroso dire che, oltre alla Resistenza, che fu un fatto di fondamentale importanza, ci fu anche qualcosa che nacque qui. Sono lieto che Mack Smith l'abbia detto e farò il possibile, per quanto mi riguarda, per dirlo con gli strumenti che sono a mia dispo­sizione.

 

Franco Arina, sindaco di Brindisi

Ringrazio il dotto Uboldi. Vorrei comunicare che sia il prof. Mack Smith sia il dott. Uboldi sono disponibili, per breve tempo, a rispon­dere a qualche domanda, che mi auguro sia precisa e con­cisa e che venga soprattutto da giovani.

 

Intervento dal pubblico

Intervengo io, anche se non sono troppo giovane, per rompere il ghiaccio. Desidero porgere una domanda a Denis Mack Smith. Vorrei sapere se risulta esistere un documento storico dal quale si possa evincere che, partite da Roma ed arrivate a Pescara le varie macchine con i gagliardetti che portavano i signori generali, ci sia stata una qualche forma di resistenza, del principe Utmberto, all'imbarco sulla torpediniera che li avrebbe portati a Brindisi. Vorrei sapere, inoltre, se è vero, storicamente, che la regina dette l'alto-là al figlio che intendeva ritornare a Roma e mettersi alla testa di qei tre reggimenti corazzati che erano a Roma e che potevano combattere i tedeschi.

 

Denis Mack Smith

Non so se ho capito del tutto, ma comincio a rispondere. C'è qualche prova che Umberto, mentre scappava da Roma, abbia protestato perchè voleva ritornare a Roma. C'è più di un documento. Questo vuol dire, quindi, che è quasi accertato che egli abbia parlato almono con due o tre persone a cui avrebbe detto che il suo posto era a Roma, Il cognato aveva disobbedito al re ed era rimasto a Roma con i suoi soldati, Umberto soste­neva che un uomo d'onore si doveva comportare così. Il re disse che, poichè pensava di abdicare, Umberto doveva essere con 1ui nel Sud e non nelle mani dei tedeschi. Non so se questo è vero o meno.

Per quanto riguarda il fatto che la regina avesse dato l'altlo-là ad Umberto, probabilmente è vero. Ho sentito qual­che cosa in merito ma non ne sono sicuro, Non posso risponderle e mi scuso.

 

Raffaello Uboldi

Per quanto riguarda l'episodio di Umberto, sono in grado di aggiungere due cose. Lo stesso Umberto di Savoia, in una intervista televisiva a Nicola Caracciolo, precisò non quello che era successo ad Ortona-Mare al momento dell'imbarco, ma al castello dei duchi di Bovino durante la tappa del viaggio verso Pescara. Umberto disse testualmente: «Dissi a mio padre che se occorreva qualcuno che ritornasse a Roma per prendere la testa della sua difesa, io ero disponibile».

Quando poi, di recente, nella trasmissione sul 25 luglio, intervistai al telefono Maria Josè - che oggi vive in Messico e che non desidera essere ripresa perchè le condi­zioni di età e di salute non rendono molto gradevole il suo viso - ella mi disse che Umberto era disposto a tornare ma il Re, che era il comandante dell'esercito, rispose di no. E lui dovette obbedire perchè era un ufficiale tra i tanti. Alla mia domanda: «C'era molta disciplina in casa Savoia?», Maria Josè, con una bella risata, ri pose: «Sì, ce n'era».


Intervento dal pubblico

 Lo storico Renzo De Felice, in una intervista rilasciata al «Corriere della Sera», affer­ma testualmente: «La catastrofe dell'8 settembre 1943 fu assoluta, perchè fece sprofondare la nazione nella voragi­ne». Egli riconosce una corrispondenza tra il crollo del concetto di nazione provocato dal fascismo negli anni della guerra e l'assenza dei valori nazionali, che oggi è particolarmente evidente. Io chiedo se concordate o meno con questa valutazione storica.

 

Denis Mack Smith

Io sono d'accordo con Renzo De Felice, ma alla domanda se il tracollo di quei valori abbia qualche rassomiglianza con quello di oggi, io risponderei sicuramente di no. Siamo in un'altra posizione, del tutto diversa, anche se qualche fondamento si può sempre rin­tracciare nel passato. Ma adesso siamo in tutt'altra situazione, ed io ritengo che non sia utile ricercare nel passato per trovare una risposta ai problemi di oggi.

 

Intervento dal pubblico

Dal mio punto di vista quello di un ragazzo di seconda media, ho notato una discordanza. Mentre nella relazione del prof. Mack Smith Vittorio Emanuele e Badoglio sono apparsi come degli inetti, nella relazione del giornalista Uboldi è sembrato che essi abbia­no dovuto fare quella scelta come l'unica possibile. Quale sarebbe la conclusione definitiva ed obiettiva?


Raffaello Uboldi

Lascio subito la parola a Denis Mack Smith che sicuramente parla con maggiore autorevolezza di me. A proposito della partenza del re da Roma io ho detto che in quelle condizioni non c'era altra soluzione che quella di andarsene. Carboni non intendeva combattere e gli ordini erano quanto mai contraddittori. Va detto che Carboni era un personaggio molto curioso. Infatti, da un lato rifiutò lo sbarco alleato a Roma - e questa decisione dipendeva molto da lui perchè in quel momento era il comandante del corpo motocorazzato di Roma, il corpo che doveva difendere Roma - motivando che gli americani non potevano atterrare in quanto non era lui che controlla­va gli aeroporti - sicuramente non li controllava tutti, ma qualcuno sì -; dall'altro verso distribuì le armi ai qifensori di Porta San Paolo. Questa è la ragione per cui, nella intervista a me rilasciata nella trasmissione sull'8 settem­bre, Adriano Ossicini parlava benissimo di Carboni, men­tre il generale Marchesi, che fu presente alla famosa sedu­ta del governo in cui si accennò alla possibilità di denun­ciare le clausole dell'armistizio, ne parlava malissimo.

 

 

Sicuramente ci fu un balletto tra generali e uno scarico continuo di responsabilità: nessuno pensò ad impegnarsi duramente contro i tedeschi.

D'altra parte, ci fu da parte italiana - e questo è fuori di dubbio - una sopravvalutazione della forza di sbarco allea­ta a Salemo. Si pensava che arrivasse «l'ira di Dio», men­tre, tutto sommato, il fronte italiano non era il secondo ma il terzo fronte perchè gli alleati si preparavano allo sbarco in Normandia. Io mi chiedo, per inciso, se da parte inglese si fosse d'accordo con questa soluzione. Vorrei ricordare anche quali erano le intenzioni degli inglesi: sbarcare nella «pancia molle» del sistema difensivo, nella Jugoslavia controllata dai partigiani di Tito, per arrivare molto rapidamente a Trieste e a Lubiana e precedere i sovietici nell'Europa centrale. Credo che sia stata soprat­tutto una scelta americana - ma forse il prof. Mack Smith mi può correggere - quella di organizzare lo sbarco princi­pale in Normandia e uno sbarco di secondo grado qui.

In quella situazione di sbando che oramai si era creato, io credo che al re restassero due scelte. La prima era quel­la di farsi ammazzare a Roma, una scelta che mi sarebbe piaciuta perchè pur non essendo io monarchico avrei avuto un re capace di fare un gran bel gesto. L'altra scelta era quella di andarsene e portare il capo dello Stato in una zona libera del territorio nazionale. Scelse questa seconda soluzione che era più adatta al temperamento del re, che non credo fosse un vile, ma non era nemmeno un uomo dai grandi scatti di fantasia, era piuttosto un ragionatore a freddo.

Passo la parola a Denis Mack Smith.

           

Denis Mack Smith

Non si può dire che il re e Dndoglio erano degli inetti. Badoglio era un uomo serio. Non era un'aquila, e non lo era nemmeno il re, ma non erano assolutamente degli inetti. Badoglio aveva buon senso. Alla data del 9 luglio c'era un momento di panico dovuto al fatto che i tedeschi circondavano Roma. Ma era un'assurdità perchè gli italiani avevano sei divisioni vicino Roma e i tedeschi ne avevano solo due. Con due divisioni non potevano assediare Roma. Qualcuno ha detto che c'è  stato una specie di tradimento, perchè Badoglio non era un uomo tanto coraggioso. Il re lo era un po' di più. Umberto raccontava che Badoglio, nella macchina, scap­pando da Roma, era terrorizzato dalla possibilità di essere scoperto dai tedeschi ed essere fucilato. Tra l'altro, lui era vecchio come lo sono io adesso, anche di più. Non era veramente un buon momento per Badoglio. Anche il re era un uomo vecchio, ed entrambi non decisero alcunché. Diedero ascolto agli amici che dicevano: «E' meglio andar via». E, senza domandarsi se era necessario, andarono via, senza dare ordini a nessuno.

Si creò un grande scompiglio. In questo possiamo parla­re di inettitudine. Essi non furono capaci, nemmeno in quel momento, di dire a qualcuno, magari a Roatta, di prendere una decisione; di dire ai soldati di restare e di combattere o di ritirarsi. Qualcuno doveva decidere; se il re non poteva, qualcun altro doveva farlo. In situazioni così c'è quasi sempre qualcuno che può decidere e agire. Era loro dovere individuare chi poteva essere questo qual­cuno, ma non lo fecero. Non so se questa è la risposta giu­sta alla domanda.

 

Franco Arina, sindaco di Brindisi

Credo di poter rin­graziare, a nome di tutti voi, «Quotidiano», il prof. Mack Smith e il dottor Uboldi per il godimento che ci hanno dato. Per chi, come me, è stato testimone di quegli anni, è stato come rivivere quelle giornate. Spero che i giovani abbiano potuto apprendere qualcosa di più di quello che l'Italia e Brindisi hanno fatto per la ricostruzione democratica.