3° Convegno Provinciale Cidi-Proteo “Insegnare della scuola delle riforme” 
 
 Brindisi, 14 – 15 gennaio 2004
 Relazione d’apertura 
 
 Fernando Cocciolo C’è 
          – credo – una relazione molto stretta tra come si vede la scuola e come 
          si vede la professione docente. Voglio dire che la visione della scuola 
          (la missione che alla scuola si attribuisce e la visione che l’accompagna) 
          condiziona fortemente, insieme con altri fattori, naturalmente, il modo 
          di esercitare il mestiere di insegnare, la funzione stessa – per così 
          dire – dell’insegnare. Queste due giornate vogliono essere appunto l’occasione per discutere sui nodi principali della legge di riforma e dei vari documenti collegati (dalle Indicazioni Nazionali per i Piani di studio personalizzati nella scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di 1° grado al Portfolio educativo, culturale e professionale dello studente, allo schema del primo decreto legislativo di attuazione, ecc.) ed in particolare per riflettere sulla funzione docente nella prospettiva dei cambiamenti previsti. Anche quest’anno possiamo contare, come nei due precedenti convegni del CIDI, su un protagonista assai accreditato (uno soltanto, a questo punto, vista l’assenza improvvisa di Missaglia) del dibattito attuale sulla riforma del nostro sistema di istruzione e formazione. Vorrei ricordare la presenza al 1° Convegno, quello di ricostituzione, dopo molti anni, del CIDI – Brindisi, di Alba Sasso e di Giancarlo Cerini; e al 2°, nell’anno scolastico scorso, gli interventi di Luciano Corradini e di Sofia Toselli. A questo 3° Convegno, che nasce dalla collaborazione tra CIDI e PROTEO Fare Sapere, abbiamo invitato Dario Missaglia e Domenico Chiesa che, da osservatorî diversi, sono, come dicevo, tra gli analisti più rigorosi e documentati della riforma e dei suoi “dintorni”. Siamo veramente rammaricati che Missaglia non abbia potuto essere con noi; ma gli siamo comunque grati per la disponibilità immediata che sia lui sia Domenico Chiesa ci avevano dato e per la presenza che, come dicevo, solo il presidente nazionale del CIDI ci garantisce per domani. Questa disponibilità, questa attenzione, ci paiono un riconoscimento all’impegno “culturale” con il quale CIDI e Proteo si sforzano di tenere alto il livello della riflessione e vivo il dibattito sulla scuola e sulla professione docente, in una provincia nella quale quelli che dovrebbero essere i servizi di supporto ai docenti, alla didattica e alla ricerca educativa delle scuole autonome sono, purtroppo, del tutto inconsistenti ed inutili allo scopo: per ragioni diverse, mai affrontate, anzi volutamente eluse e quindi sempre più incancrenite. Su tali ragioni bisognerà riflettere, con serietà ed onestà intellettuale. Ma la riconosciuta efficacia dell’attività del CIDI Brindisi in questi anni, che si esplica, attraverso iniziative modalità e strumenti diversificati, come attività di servizio e come offerta di supporto qualificato alla professione docente e alla ricerca organizzativa, educativa e didattica delle scuole, è assai confortante. E viene, stasera, ulteriormente confermata dalla partecipazione così ampia e qualificata di docenti e dirigenti scolastici a questo convegno. Allora, 
          se siete un po’ benevoli nei miei confronti e mi perdonate se procederò 
          un po’ per assiomi e un po’ per argomentazioni più estese, a me pare 
          di poter concordare con quanti vedono confrontarsi esplicitamente nel 
          nostro paese due modelli di società, cui corrispondono sostanzialmente 
          due modelli di scuola:  
          
          1)      
          
          Il primo è un modello fondato 
          su una flessibilità senza regole, o con poche e deboli regole, diciamo 
          un modello fondato sul mercato, che orienta le scelte e nel quale, soprattutto, 
          è la dimensione individualistica a caratterizzare i rapporti 
          tra le persone, i rapporti di lavoro, i rapporti tra le persone e le 
          istituzioni, le forme organizzate della vita associata;  
          
          2)      
          
          Il secondo è un modello sociale 
          in cui il mercato e le relazioni generali si realizzano e assumono senso 
          in rapporto con lo sviluppo delle sicurezze materiali, dei diritti sociali, 
          della condivisione, della responsabilità, della partecipazione, della 
          solidarietà come collante sociale del nostro tempo. Ne 
          derivano, evidentemente, definizioni diverse del ruolo della scuola 
          e della funzione docente. Personalmente, 
          non ho alcuno spirito di demonizzazione nei confronti della riforma 
          Moratti, e non ho, non abbiamo noi del CIDI, alcuna 
          intenzione di limitare il confronto con essa a mere ragioni ideologiche. 
          Sono convinto, invece, che con la scuola della riforma dobbiamo confrontarci 
          a diversi livelli, e dobbiamo farlo su un piano più evoluto, ad ogni 
          livello: storico, pedagogico, sociale, culturale, professionale; ma 
          anche metodologico, didattico, organizzativo, formativo; e anche sugli 
          impianti disciplinari, ovviamente, come ci proponiamo di fare presto 
          in appositi incontri seminariali, ammesso che 
          quegli impianti diventino qualcosa di più che delle semplici note al 
          di fuori delle procedure previste dalla stessa legge delega. Riteniamo 
          importante che le scuole, i docenti si misurino sui contenuti culturali 
          e didattici delle indicazioni, che le confrontino non solo con i programmi 
          attuali ma con le elaborazioni migliori di questi anni (che provengono 
          quasi sempre delle scuole e dei docenti stessi, non lo dimentichiamo!); 
          e con le elaborazioni e gli orientamenti espressi dal mondo della ricerca 
          e dalle associazioni professionali e disciplinari: che sono notoriamente 
          organismi piuttosto seri e competenti. E forse 
          per questa ragione, oggi del tutto inascoltati. Con 
          la scuola della riforma, comunque, è professionalmente 
          giusto ed opportuno confrontarsi.   D’altronde, 
          come scriveva Umberto Eco qualche giorno fa su un quotidiano, «un dato 
          di fatto è un dato di fatto, ci piaccia o non ci piaccia, e i dati di 
          fatto sono tali proprio perché sono indipendenti dalle nostre preferenze 
          (ti è morto il gatto? è morto, ti piaccia o no) ». Eco, nel suo articolo, si riferiva 
          alla concentrazione di potere mediatico in Italia nelle mani di una 
          sola persona, che è un dato di fatto come per 
          noi è un dato di fatto la Legge 53, con i decreti applicativi che, prima 
          o poi, l’accompagneranno: ed è con quella legge che oggi dobbiamo misurarci, 
          è all’interno di quei decreti che dovremo domani esercitare la nostra 
          autonomia professionale; è per la definizione migliore possibile di 
          essi che dovremo essere attenti e capaci di avanzare proposte. Il 
          CIDI ha svolto negli ultimi mesi un intenso lavoro di 
          analisi dei testi ministeriali, dalla Legge 53 alle “Indicazioni”, 
          allo schema del primo decreto applicativo. A questo lavoro di riflessione, 
          e ai documenti che ne sono scaturiti, farò quindi esplicito riferimento 
          e ricorso nel mio intervento.   Una 
          prima considerazione da fare è che la riforma poggia su principi piuttosto 
          estranei alla scuola italiana moderna, come si è andata sviluppando 
          almeno dall’istituzione della scuola media unica in avanti.   A 
          cominciare da un aspetto che, per la nostra consuetudine di 
          attenzione, di disponibilità e di responsabilità, potremmo essere 
          indotti a considerare, alla fin fine, come scarsamente incidente nei 
          contesti scolastici reali, ma che rappresenta invece un vero e proprio 
          stravolgimento della relazione tra scuola e famiglia quale oggi la intendiamo: 
          mi riferisco a questo singolare rappresentarsi della famiglia quasi 
          come contrapposta all’autonomia della scuola o come contrappeso, se 
          volete, all’autonomia della scuola: una sorta di “familismo liberista” 
          – ha osservato qualcuno - evidente non solo nella possibilità di richiedere 
          individualmente (o non richiedere) attività aggiuntive (che sono, appunto, 
          facoltative e opzionali rispetto al monte ore annuale d’obbligo), 
          ma presente anche – ed in maniera prevedibilmente pesante – là dove 
          non se ne sentirebbe affatto il bisogno: per esempio, nella elaborazione 
          del Portfolio delle competenze individuali. Così 
          da un lato la scuola, pubblica, rischia di configurarsi come 
          un servizio a domanda individuale e di vedere sempre più impallidire 
          la sua connotazione di luogo di partecipazione e di 
          esercizio di un diritto collettivo; dall’altro lato, la famiglia-risorsa 
          o i genitori-risorsa (come oggi tendiamo a considerarli) rischiano di 
          perdere ai nostri occhi questa utile, talvolta preziosa funzione e di 
          trovarsi di fronte agli insegnanti su un terreno di impropria collusione 
          di responsabilità educative, che invece - secondo noi - devono rimanere 
          distinte. E 
          lo stesso Portfolio, che potrebbe essere uno strumento utile ed interessante, 
          se inteso come ricerca di modalità nuove di 
          descrizione processuale e di promozione delle competenze degli allievi, 
          rischia non solo di trasformarsi in uno spazio amministrativo e burocratico 
          destinato ad influenzare in modo non corretto le successive valutazioni 
          e, in certi casi, a segnare il percorso di istruzione e formazione del 
          bambino, sancendone precocemente il destino, scolastico almeno; ma anche 
          di diventare terreno di contrattazione/negoziazione continua (dalla 
          collusione al conflitto) tra scuola e famiglia.  
           Un 
          altro aspetto-chiave, che non può dirsi propriamente 
          nuovo né estraneo alla scuola attuale, ma che nei documenti di riforma 
          si presenta come nettamente dislocato rispetto alla nostra sensibilità, 
          è quello che riguarda la cosiddetta personalizzazione. Noi 
          temiamo che anche il continuo richiamo alla personalizzazione dei piani 
          di studio o alla personalizzazione delle attività o ai piani personalizzati, 
          faccia prevalere una idea di scuola come puro 
          servizio alla persona o alle famiglie, orientata piuttosto ad andar 
          dietro ad interessi individuali che a dare risposte significative a 
          bisogni collettivi, sminuendo il senso e la funzione del sistema educativo 
          pubblico e riducendolo ad una specie di continua contrattazione tra 
          parti.  Soprattutto 
          temiamo che, progressivamente, scolorisca l’idea della scuola come luogo 
          privilegiato (e in tante realtà territoriali pressoché unico) di partecipazione, 
          di aggregazione, di impulso culturale: come 
          luogo in cui si costruisce e si esercita uno dei diritti fondamentali 
          di una comunità.      La questione, però, merita qualche postilla di natura, diciamo, professionale e didattica: noi non possiamo che apprezzare il richiamo dei testi ministeriali a porre la necessaria attenzione alle caratteristiche cognitive degli allievi, agli stili di apprendimento, alle attitudini e alle motivazioni. Direte che tutto questo fa parte integrante della professionalità di ogni docente: e questo è certamente vero. Tuttavia, sappiamo che nei contesti reali di insegnamento-apprendimento il principio della individualizzazione, introdotto dalla legge 517/77, non è tanto semplice da applicare, perché si tratta di gestire un insegnamento individualizzato, non individuale: un insegnamento cioè che si colloca nel contesto sociale della classe. Per 
          noi quindi l’insegnamento individualizzato è un principio-guida, 
          un principio regolativo ed agisce non su un piano “strutturale” 
          ma sul piano metodologico, sul piano delle strategie e delle tecniche 
          didattiche, sulle modalità della comunicazione 
          educativa e della interazione verbale in classe, sulla scelta degli 
          strumenti e dei materiali.  Noi infatti, nella pratica scolastica consueta, facciamo riferimento 
          al concetto di individualizzazione dell’insegnamento/apprendimento soprattutto 
          nei casi di svantaggio, genericamente inteso: deprivazione socio-culturale, 
          socio-linguistica, economica, disadattamento, ecc. (handicap, naturalmente, 
          che può contare anche su altri supporti). L’obiettivo, 
          come ben sapete, è assicurare a tutti il diritto 
          ad apprendere e di sviluppare le capacità e i livelli di apprendimento, 
          agendo appunto, attraverso scelte metodologiche e strategie didattiche 
          coerenti, sulle potenzialità e sulle caratteristiche di ognuno. Ma 
          se questa finalità, alla quale la scuola deve tendere con convinzione, 
          responsabilità e competenza sempre maggiori, diventa una scelta di impianto “strutturale”, allora cambia profondamente il senso 
          e l’obiettivo della cosiddetta “personalizzazione”.  Abbiamo 
          la sensazione che definire, nel titolo, gli indirizzi curricolari come 
          INDICAZIONI NAZIONALI PER I PIANI PERSONALIZZATI comporti 
          un rischio molto serio: quello di legittimare, già dai livelli 
          scolari più bassi, attraverso i piani personalizzati, la diversificazione 
          dei percorsi e dei risultati, rimandando, per fare un esempio, a classi 
          o gruppi di allievi stabilmente distinti per livelli di capacità e di 
          apprendimento, per interessi, attività, per motivazione, ecc. Temiamo 
          cioè, su un terreno di fondamentale importanza 
          per il successo formativo degli alunni, il riproporsi di un atteggiamento 
          non infrequente nella nostra professione: mi riferisco – possiamo dircelo 
          apertamente – a quella tendenza alla “semplificazione” del concetto 
          di valutazione o ad un certo “pressappochismo” valutativo, cui tutti 
          siamo più o meno esposti. Va 
          assolutamente sottolineato – attenzione - che 
          nei documenti ministeriali le differenze sono – giustamente - sempre 
          richiamate in positivo e che lo scopo dichiarato è quello di favorire 
          il massimo sviluppo personale.  Tuttavia 
          il rischio che la personalizzazione si traduca 
          in una scuola tendenzialmente organizzata per classi o gruppi omogenei, 
          secondo noi, esiste, anche in considerazione delle successive scelte 
          di studio, visto come è strutturato il nuovo sistema di istruzione e 
          formazione. Un 
          esempio: il monoennio (l’anno, insomma, ma apprezziamo la creatività 
          linguistica ministeriale) finale della scuola secondaria di primo grado 
          (la scuola media attuale) ha, nell’articolazione dei cicli e dei periodi 
          scolastici previsti dalla riforma, una funzione specificamente orientativa 
          verso i due contrapposti canali di istruzione/formazione: 
          da un lato il sistema dei licei, dall’altro il sistema della formazione 
          professionale; e anche verso una terza via – chiamiamola così - molto 
          nebulosa e tutta da definire (come qualsiasi terza via, del resto), 
          che è quella dell’alternanza scuola/lavoro.    Allora la domanda, probabilmente non tanto peregrina, che possiamo farci è la seguente: come si regoleranno le scuole dal punto di vista organizzativo? intendo sia dal punto di vista della formazione delle classi sia nella organizzazione didattica, per il terzo anno di scuola media? Non è piuttosto facile ipotizzare scorciatoie di canalizzazione ultra-precoce (ancora più precoce di quanto la legge già preveda), per cui, ad esempio, le classi, terminato il biennio, terminati i primi due anni di scuola media, potrebbero essere scomposte e ricostituite sulla base delle scelte previste o presumibili per il dopo terza media? Mi pare un’ipotesi non tanto campata in aria: con tutte le conseguenze che avrebbe su diversi piani. Un’altra 
          dibattuta questione, su cui vorrei soffermarmi brevemente, riguarda 
          il tempo scuola e, ad essa connessi, taluni 
          aspetti dell’impianto culturale della scuola di base.  [Sulla 
          secondaria di 2° grado non abbiamo ancora nulla, 
          come sapete, né riguardo al tempo né riguardo agli impianti disciplinari] 
           Noi 
          riteniamo assolutamente giusto e prioritario riflettere sui saperi e 
          sulle conoscenze fondamentali; pensiamo che una scuola, che gli insegnanti 
          debbano essere sempre più attenti alla selezione dei contenuti, disciplinari 
          e trasversali, sulla base della essenzialità, 
          della irrinunciabilità; condividiamo la percezione che la scuola si 
          sia sovraccaricata in questi anni di funzioni genericamente educative 
          o socializzanti a scapito della sua preminente funzione di istruzione 
          e formazione culturale. Abbiamo messo in guardia, da lungo tempo ormai, 
          le scuole e i colleghi dal conformarsi ad un modello, a 
          una “moda” (in rapida diffusione, per altro) per cui l’accessorio (l’integrativo, 
          l’extracurricolare, …) diventava fondamentale, mentre il fondamentale 
          (il curricolo, le competenze disciplinari, linguistiche, matematiche, 
          …) tendeva a diventare marginale, residuale rispetto a interessi altri. Ma 
          ci chiediamo se un curricolo essenziale possa qualificarsi per la riduzione 
          del tempo scuola o per una manovra di semplice alleggerimento e sfoltimento 
          dei contenuti disciplinari; o non debba piuttosto qualificarsi, attraverso 
          l’autonoma elaborazione delle scuole autonome - in questo modo caratterizzandosi 
          esse stesse scuole come veri laboratori di ricerca professionale e di 
          azione didattica – non debba qualificarsi piuttosto, dicevo, 
          nella individuazione di percorsi significativi di apprendimento nei 
          diversi ambiti del sapere, capaci di stimolare operazioni cognitive, 
          formative, e quindi autenticamente orientanti e permanenti, di interpretare 
          le dimensioni dell’affettività, della creatività, dell’espressività, 
          della riflessività, di arricchire i linguaggi e le modalità comunicative, 
          di fornire metodi e strumenti efficaci per studiare, per comprendere, 
          per apprendere.   Noi 
          pensiamo che sia questa seconda la strada giusta.  Ecco 
          perché la riduzione dei tempi scolastici obbligatori, che è piuttosto 
          netta al di là delle recenti rassicurazioni ministeriali sul tempo 
          pieno e prolungato [ma come possano essere salvati, se non rinunciando 
          all’impianto generale, io non riesco a vedere], rassicurazioni successive 
          alla pronuncia molto critica del Consiglio Nazionale della P.I. e al 
          malcontento di molte associazioni dei genitori, questa riduzione, dicevo, 
          non potrà che rendere povero e debole il curricolo ed estremamente aleatoria 
          la possibilità di realizzare esperienze didattiche di qualità per 
          tutti, assicurando cioè ad ogni allievo l’integrazione tra sollecitazioni 
          operative, culturali, sociali e la progressiva, graduale organizzazione 
          delle conoscenze. Credo 
          che agli insegnanti apparirà del tutto evidente la 
          oggettiva difficoltà di garantire un insegnamento “personalizzato” 
          in un tempo scuola obbligatorio comune ridotto a 27 ore, per 
          altro nettamente distinto da quello facoltativo, dedicato ad 
          attività di laboratorio, espressive, ecc.   Questa 
          distinzione desta legittime perplessità: in primo luogo, per la diversa 
          configurazione giuridica dei tempi della scuola – che può rendere marginale 
          e poco appetibile l’offerta formativa aggiuntiva della scuola stessa; 
          in secondo luogo, perché riesce piuttosto difficile immaginare metodologie 
          differenziate, strategie di individualizzazione, realizzazione 
          di piani personalizzati, acquisizione di conoscenze, competenze, metodi, 
          strumenti e altre cosette del genere, su una soglia-base di circa 27 
          ore settimanali obbligatorie dedicate alle discipline fondamentali, 
          ulteriormente variabile nel limite del 15%, e non certo compensata dalla 
          quota aggiuntiva di 3 o 6 ore settimanali (facoltative e opzionali), 
          dedicata all’arricchimento o all’ampliamento del percorso obbligatorio 
          e demandata alla negoziazione con le famiglie, i ragazzi, il territorio. Restano 
          fondati, allora, almeno due grossi dubbi: 1) il primo è che il quadro 
          nazionale delle discipline fondamentali (aumentate rispetto alle attuali, 
          e a cui vanno aggiunte 6 educazioni) sia compatibile con il complessivo 
          contenimento del tempo scuola previsto: anche per l’introduzione di 
          una soglia minima individuale di frequenza, che non trova riscontro 
          nel nostro ordinamento; 2) il secondo dubbio è che, di conseguenza, 
          il tempo scuola obbligatorio finisca per caratterizzarsi come tempo 
          della “trasmissione” delle conoscenze, centrato su metodologie sostanzialmente 
          frontali di insegnamento e che la “personalizzazione” 
          sia demandata, di fatto, soltanto all’aggiunta opzionale e facoltativa. Ma 
          questo secondo dubbio sembra poter essere già sciolto, se addirittura 
          il Direttore Generale per gli Ordinamenti scolastici presso il MIUR, 
          in un articolo appena pubblicato (Scuola e Didattica, gennaio 2004), 
          a proposito della distinzione tra quota obbligatoria e quota opzionale 
          e facoltativa afferma che quest’ultima ha la funzione «di rendere 
          effettivo il diritto di scelta da parte delle famiglie e degli alunni 
          e di rendere possibile la diversificazione dei percorsi (personalizzazione)».   E 
          nella quota obbligatoria come si rende possibile la personalizzazione? 
          O non serve, la personalizzazione, nel tempo comune della quota 
          obbligatoria? C’è, 
          in questa distribuzione dei tempi, dei modi e dei contenuti, una 
          interpretazione poco evoluta dei modelli di apprendimento e, 
          soprattutto, della connessione tra aspetti cognitivi, sociali e affettivi. 
          Non viene sottolineato il valore formativo delle discipline, la 
          loro capacità di promuovere processi cognitivi; non c’è coerenza sul 
          piano metodologico. Chi ha pratica di didattica laboratoriale, operativa, 
          cooperativa sa che non si può relegarla in momenti facoltativi, aggiuntivi 
          rispetto al tempo obbligatorio, estranei al “curricolo”.  Ecco 
          la parola; ecco, alla fine, quello che manca: manca una prospettiva 
          curricolare, che è quella che ci consente di organizzare e tradurre 
          i sistemi simbolico-culturali in discipline di studio, in funzione 
          dell’apprendimento ai diversi livelli d’età. Se noi interpretiamo le 
          discipline in un’ottica formativa, non è per una loro generica potenzialità 
          trasversale o sociale, ma perché, caratterizzandosi come spazi operativi 
          e simbolici, organizzano, “disciplinano” appunto, gradualmente l’intelligenza 
          e la conoscenza, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria 
          superiore.   Il 
          CIDI ha fatto notare che nei documenti questo carattere di verticalità, 
          di processualità del curricolo non è sufficientemente esplicitato, e 
          che traspare invece una demarcazione piuttosto rigida tra dimensioni 
          primarie e secondarie della conoscenza. In particolare, appare decisamente 
          sottovalutato l’apporto della scuola dell’infanzia all’apprendimento 
          e alla conoscenza: la qual cosa lascia ancor più interdetti se si pensa 
          al preziosissimo lavoro che, negli ultimi anni, la scuola materna ha 
          fatto in questa direzione. In 
          compenso, i piccoli di due, tre quattro anni sono chiamati a «soffermarsi 
          sul senso della nascita e della morte, delle origini della vita e del 
          cosmo, della malattia e del dolore, del ruolo dell’uomo nell’universo, 
          dell’esistenza di Dio a partire dalle diverse risposte elaborate e testimoniate 
          in famiglia e nelle comunità di appartenenza» 
          … (TESTUALE)… Come dire: i bambini dell’ormai ex scuola materna dovrebbero 
          problematizzare temi come la morte, il dolore, la malattia e il ruolo 
          dell’uomo nell’universo, ma possono fare meno pratica (e meno gioco) 
          con la lingua, con i numeri, con la logica, con le scienze.      Naturalmente 
          noi sappiamo bene che nell’attuale organizzazione del tempo scolastico 
          e dei curricoli nella scuola di base vi sono aspetti ed elementi da 
          sottoporre ad analisi approfondita e a revisione; 
          ma sappiamo anche che una tale riflessione richiederebbe il più ampio 
          coinvolgimento, la più ampia partecipazione e il contributo di idee 
          e di esperienza di coloro che nei contesti reali di apprendimento/insegnamento 
          effettivamente operano. Dispiace 
          che ciò non sia avvenuto. Non sarebbe stato inutile, per esempio - ha 
          scritto il CIDI nel Parere sulle Indicazioni nazionali per il primo 
          ciclo di istruzione consegnato al Ministro -  non 
          sarebbe stato inutile cercare di capire meglio «quali siano oggi 
          i tempi di vita, di relazione, di apprendimento dei bambini, nelle famiglie, 
          nella città; come utilizzare il tempo scuola per qualificare meglio 
          l’ambiente di apprendimento; come costruire un progetto educativo a 
          misura di ogni allievo, senza entrare in una logica di separazione, 
          di competizione, di esclusione». E ancora: «l’idea 
          che si va diffondendo, per esempio, è che il tempo scuola debba essere 
          una variabile sempre più flessibile, a mano a mano che si procede nel 
          corso degli studi: dagli anni iniziali del ciclo di base, ove va assicurata 
          una giornata educativa distesa e fortemente 
          unitaria (sull’esempio del tempo pieno europeo), agli anni terminali, 
          ove si possono favorire scelte più personali e autonome dei ragazzi 
          con la regia progettuale della scuola». Gli 
          insegnanti sono sicuramente interessati al dibattito su simili temi, 
          ma chiedono che una questione “pedagogica” (come articolare i tempi 
          della scuola e rendere più equilibrata ed efficace la loro gestione) 
          non si trasformi in una questione  surrettiziamente 
          “ideologica” (tempo della scuola-istituzione contrapposto al tempo della 
          società-comunità); e chiedono anche che, magari, la nuova organizzazione 
          del tempo scuola non diventi la premessa per una consistente riduzione 
          delle risorse di personale.  Ultime 
          note sparse, che sono sicuro saranno riprese 
          più tardi, se credete, nel corso del dibattito, e domani con Domenico 
          Chiesa. 1) 
          E’ ancora lontana dalla scuola italiana quella sorta di gerarchizzazione 
          che si prevede di introdurre con l’insegnante tutor, anche se la cosa 
          sembra destinata, forse, ad essere ridimensionata. Si può discutere 
          all’infinito se sia un bene oppure no: tuttavia esiste e si estende 
          il dibattito su una rivisitazione profonda del profilo professionale 
          del docente, su uno sviluppo di “carriera”, sulla 
          istituzione di un Albo, ecc. D’altronde esistono due disegni 
          di legge all’esame della Camera, che intendono rivoluzionare il profilo 
          giuridico del docente: credo che, una volta a regime la riforma, prima 
          o poi la questione si porrà in primo piano, a livello sindacale e a 
          livello professionale.  2) 
          Esprimiamo forte dissenso nei confronti di una formazione dei docenti 
          totalmente appaltata all’Università. Non v’è dubbio che la responsabilità 
          della formazione iniziale debba essere dell’Università, che per altro 
          si potrebbe giovare di forme organiche di collaborazione con la scuola 
          anche lungo i percorsi di laurea specialistica. La formazione in servizio, 
          invece, deve rimanere responsabilità delle scuole, pur in un intreccio, 
          indispensabile, di collaborazioni con l’Università, con l’IRRE, con 
          le Associazioni professionali e disciplinari degli insegnanti: intreccio 
          che può costruirsi solo se ciascuno dei due soggetti risulta 
          portatore di una propria e distinta identità, con compiti e funzioni 
          specifiche. Bisogna ammettere che se l’Università spesso non ha conoscenza 
          specifica delle realtà diverse dei contesti “scolastici”, le scuole hanno molta difficoltà a costruire 
          e sviluppare una propria identità di ricerca, che ne sostenga ed orienti 
          le iniziative di formazione in servizio. 3) 
          Vogliamo sostenere, salvaguardare e potenziare l’autonomia delle istituzioni 
          scolastiche, sancita dalla Costituzione, perché la scuola pubblica, 
          la scuola dell’autonomia funzioni e funzioni sempre meglio, valorizzando 
          e diffondendo le esperienze e le pratiche migliori, dando senso 
          alla professionalità docente senza necessariamente creare gerarchie 
          (con i conflitti, le indifferenze, le relazionalità problematiche che 
          inevitabilmente si porterebbero dietro in un contesto ad alta professionalità 
          diffusa quale è quello della scuola), ma piuttosto perseguendo e consolidando 
          una seria articolazione funzionale della professionalità docente all’interno 
          di una organizzazione del servizio fortemente condivisa e qualitativamente 
          più complessa. Credo che sia questo, oggi, il modo più efficace per 
          salvaguardare, insieme con l’autonomia della scuola, l’autonomia della 
          funzione docente.  |