Cidi-Coordinamento 
          nazionale 14-15 giugno 2003. Documenti di lavoro 
         
        Scuola 
          di base: che succede a settembre? 
         
      Dopo 
        l’approvazione della legge delega n. 53 del 28-3-2003 restano aperti 
        tutti i problemi che l’iter frettoloso ed unilaterale del processo 
        di riforma aveva già ampiamente evidenziato nei mesi scorsi. 
      Chiediamoci 
        perchè 
      a) 
        Nessuna partecipazione del mondo della scuola all’elaborazione delle 
        idee-guida della riforma; scarso coinvolgimento delle associazioni professionali 
        e dei sindacati; nessuna consultazione significativa sui nodi culturali 
        ed organizzativi delle nuove proposte (es: gestione “pilotata” 
        degli Stati Generali per la scuola nel dicembre 2001); 
        b) totale assenza di impegni finanziari nel progetto di riforma (salvo 
        alcune limitate risorse per l’anticipo nella scuola elementare) 
        e preannuncio di un “futuribile” piano finanziario pluriennale, 
        contraddetto dalle persistenti misure di riduzione degli impegni finanziari 
        verso la scuola pubblica (tagli agli organici, drenaggio di finanziamenti 
        già impegnati, vincoli alla finanza locale, ecc.); 
        c) assenza di sedi trasparenti, pubbliche e pluralistiche deputate all’elaborazione 
        delle indicazioni curricolari, da connettere con le migliori esperienze 
        della scuola, sostituite da un percorso “sotterraneo” e carsico 
        che ha portato alla diffusione via Internet di bozze di Indicazioni nazionali 
        per la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I grado, prolisse, 
        “gergali”, tendenziose sul piano valoriale, con indebite intrusioni 
        nel campo di scelte organizzative ormai collaudate (es: tempo scuola, 
        pluralità docente, ecc.), in mancanza di criteri ispiratori nella 
        legge di delega; 
        d) clamorosa dimenticanza di aspetti qualificanti della scuola di oggi, 
        che è profondamente cambiata in virtù di provvedimenti precedenti 
        e dell’impegno degli operatori scolastici: si cita il caso degli 
        istituti comprensivi (che rappresentano il 43 % di tutte le scuole di 
        base), della scuola elementare a tempo pieno (che accoglie oltre il 25 
        % dell’utenza della scuola primaria, con punte provinciali superiori 
        al 50 %), della scuola dell’infanzia (che ha consolidato la sua 
        immagine “educativa” nei confronti dell’opinione pubblica) 
        che oggi si trova nella spiacevole condizione di una non-scuola, con una 
        durata curricolare che il “mercato” delle iscrizioni potrebbe 
        far oscillare indifferentemente tra i 2-3-4 anni; 
        e) evidenti forzature (avvenute alla fine dell’estate scorsa) nel 
        predisporre una “fragile” rete di scuole sperimentali (251, 
        con oltre 80 scuole private), impegnate a validare le bozze di curricoli 
        e di profili organizzativi, mai passati attraverso un vaglio scientifico 
        e con tempi (nemmeno un anno di lavoro) non certamente congrui per esprimere 
        valutazioni significative e su cui non è possibile costruire le 
        fondamenta delle prossime “mosse” per l’attuazione della 
        riforma. 
      La 
        nostra “buona” scuola 
      Ci 
        sono dunque rilevanti questioni di metodo e di merito attorno alle scelte 
        che si vorrebbero imporre alla scuola di base, a partire da un inspiegabile 
        “accanimento” nei confronti della scuola elementare, un segmento 
        scolastico che gode di buona salute e che si è profondamente rinnovato 
        in questi ultimi 15 anni. Gli esiti degli apprendimenti (ultima ricerca 
        IEA-Pirls, 2001 sui livelli di lettura) collocano i ragazzi delle elementari 
        italiane tuttora nelle prime posizioni; semmai le difficoltà si 
        riscontrano per i quindicenni (ricerca OCSE-Pisa, 2000). Questo dato avrebbe 
        dovuto suggerire a saggi governanti di dedicare la massima attenzione 
        al problema della formazione di base, al curricolo verticale, alla sua 
        continuità-discontinuità, alla valorizzazione dell’esperienza 
        degli istituti comprensivi, invece di esercitarsi nella furia “iconoclasta” 
        contro la scuola di base prevista dalla legge 30/2000. 
        La stessa rimessa in discussione di alcune strutture portanti della riforma 
        del 1990 (come il team docente, gradito però da oltre il 65 % dei 
        genitori interpellati dal Ministero, o il tempo scuola, verso la cui riduzione 
        oltre l’80 % dei genitori esprime contrarietà) sembra dettata 
        da uno spirito di rivincita (con forti venature ideologiche), piuttosto 
        che dalla ricerca di soluzioni migliorative. Alcuni aspetti dell’organizzazione 
        e dell’insegnamento nella scuola elementare sono certamente da rinnovare, 
        attraverso un serio impegno per le attrezzature e le strutture (che stanno 
        invecchiando), attraverso una diversa formazione dei docenti (dove non 
        basta l’e-learning condotto sui materiali “autentici” 
        del prof. Bertagna…), attraverso la ricerca di scelte curricolari 
        e didattiche coerenti ed adeguate. Invece, sembrano improvvisamente tornare 
        in auge coloro che hanno vissuto la riforma della scuola elementare come 
        spreco di risorse, come moltiplicazione dei “pani e dei pesci”, 
        solo per salvare posti di lavoro comunque. Gli analisti “della domenica” 
        dimenticano che in questi 15 anni di riforma la scuola elementare ha aumentato 
        il numero medio di alunni per classe (da 14,5 a 18,5 unità), ha 
        erogato il 25 % di tempo scuola in più (da 24 ore settimanali antimeridiane 
        a 30 ore con più pomeriggi), ha assicurato l’insegnamento 
        della lingua straniera al 90 % delle classi 3^-4^-5^ senza insegnanti 
        esterni, ha razionalizzato la rete dei plessi e delle Direzioni didattiche: 
        insomma, ha rimesso a posto i conti in casa propria, realizzando una riforma 
        che consolida i livelli di qualità raggiunti, facendo fronte a 
        nuove emergenze (si pensi alla crescente presenza di alunni “stranieri” 
        che oggi sfiorano il 5 %). 
        Si ha invece l’impressione che chi sta mettendo “mano” 
        alle elementari (o le mani sulle elementari) conosca assai poco di questa 
        storia e quindi sottovaluti la profondità del disagio e del dissenso 
        che sta emergendo tra gli insegnanti e tra i genitori. 
      Riprendiamoci 
        l’iniziativa 
      Ben 
        altre erano le aspettative alla vigilia di un possibile processo di innovazione 
        per la scuola elementare e di base: miglioramento delle condizioni di 
        lavoro per i docenti e di apprendimento per i ragazzi, processi di aggiornamento 
        e di sviluppo professionale (tali da consentire un profilo decisamente 
        unitario per tutti i docenti, con articolazioni funzionali), ricerca effettiva 
        sui curricoli verticali e rivisitazione dei saperi disciplinari in modo 
        da valorizzarne gli aspetti formativi e assicurare a tutti i bambini una 
        sicura padronanza delle competenze di base.  
        Tutto questo oggi non si vede all’orizzonte, sostituito da un lessico 
        pedagogico di dubbio valore culturale (e comunque frutto di un dibattito 
        che non c’è stato), e da improvvisate manovre sull’organizzazione 
        scolastica e professionale della scuola primaria, accompagnate da un’invadente 
        campagna pubblicitaria, ma non sostenute dagli strumenti normativi previsti. 
        Infatti, il decreto legislativo necessario per l’avvio della riforma 
        è ormai bloccato da oltre un mese, non certo per questioni di poco 
        conto, mettendo così a rischio un sereno avvio del prossimo anno 
        scolastico. 
        Spetta dunque alle scuole assumersi la responsabilità delle innovazioni 
        “possibili”, rivendicando i propri spazi di autonomia organizzativa, 
        didattica, di ricerca e di sperimentazione, collegando le nuove domande 
        della società e della cultura alla propria storia e alle proprie 
        competenze, realizzando intese forti con le autonomie locali (Regioni, 
        Province e Comuni) che saranno sempre più protagoniste dell’ecosistema 
        formativo, valorizzando e consolidando i positivi risultati raggiunti 
        in questi anni.  
        La sperimentazione può essere certamente una strategia opportuna 
        per stimolare l’innovazione, ma allora occorre garantire che ogni 
        scuola possa partecipare con piena autonomia progettuale, creatività 
        e responsabilità ai processi sperimentali (attraverso lo strumento 
        dell’art. 6 del Regolamento dell’autonomia- Dpr 275/99), che 
        siano messe a disposizione effettive risorse di organico funzionale, finanziarie, 
        e di formazione-consulenza, e –soprattutto- che il “quartier 
        generale”, con un po’ più di umiltà, sia disponibile 
        ad ascoltare, ad osservare, a raccogliere gli aspetti migliori della nostra 
        scuola, per potersene avvalere nella stesura dei futuri decreti legislativi: 
        ma forse la concertazione non è più di moda ? 
        In tutta Europa i processi di riforma più efficaci sono diventati 
        processi di innovazione (cioè sono stati promossi dal basso, dalle 
        scuole, dagli insegnanti, con la spinta delle loro motivazioni e delle 
        loro passioni), con tempi distesi e risorse adeguate, con il pieno sostegno 
        e la più ampia condivisione della società.  
        Sono condizioni che oggi mancano, ma che vanno al più presto recuperate, 
        se non si vuole assistere passivamente al declino della nostra scuola 
        primaria.  
      Roma, 
        14-15 giugno 2003 
       
  |