14. LA SORTE DEI MILITARI ITALIANI PRIGIONIERI DEGLI ALLEATI Nel corso della seconda guerra mondiale l'Italia ha attraversato vicende complesse e contraddittorie, determinate dalla diversa collocazione politica e militare che il Paese ha avuto rispetto alle parti in conflitto. In una prima fase, dal 10 giugno 1940 all'8 settembre 1943, essa ha combattuto a fianco della Germania, contro le Nazioni Unite (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Unione Sovietica), subendo drammatiche sconfitte sui campi di battaglia, ma anche le innumerevoli perdite di civili dovute ai bombardamenti alleati su obiettivi civili o militari. A questa prima fase della guerra corrisponde la situazione dei soldati italiani prigionieri di guerra catturati sui diversi fronti. I gruppi più consistenti sono stati catturati in queste occasioni: - 130.000 dagli inglesi in Africa settentrionale, dopo la prima offensiva terminata nel febbraio 1941, trasferiti in India, Australia e Sud Africa; - 40.000 dagli inglesi in Africa orientale, tra il 1940 e il novembre 1941, con la resa finale di Gondar; sono trasferiti soprattutto in Kenia e in India; - circa 60.000 soldati dell'ARMIR sono catturati dai russi nell'offensiva del Don di fine 1942, di questi circa 20.000 muoiono durante il trasferimento e altri 30.000 negli anni di prigionia, i rimpatriati, dopo la guerra, sono circa 10.000; - 30.000 dagli inglesi in Africa settentrionale, nel novembre 1942, nel corso della battaglia di El Alamein; sono inviati soprattutto in Inghilterra, alcuni lasciati in Egitto; - 100.000 dalle truppe inglesi, americane e francesi in Tunisia, nel corso della battaglia finale che porta alla perdita dell'Africa settentrionale; 80.000 vengono in massima parte avviati verso gli Stati Uniti oppure consegnati ai francesi in Algeria e in Marocco, i rimanenti saranno impiegati come lavoratori presso l'esercito americano; - 120.000 dalle truppe anglo-americane in Sicilia, nel corso della conquista dell'isola, tra luglio e agosto 1943; 65.000 soldati sono poi rilasciati sulla parola. In totale, i prigionieri italiani degli anglo-americani ammontano a circa 600.000 unità. La loro condizione è estremamente variegata. Ad esempio, quelli trasferiti negli Stati Uniti sono impiegati nell'amministrazione statale e nelle industrie belliche e ricevono un regolare trattamento economico; al contrario, quelli assegnati ai campi del Nordafrica sono impiegati in lavori estremamente faticosi e logoranti, nelle miniere o in cantieri, e rinchiusi in campi molto simili a carceri, in condizioni climatiche pessime. La sorte peggiore toccò probabilmente ai soldati dell'ARMIR fatti prigionieri dai russi nel pieno dell'inverno. La maggior parte di loro morì nel corso di trasferimenti effettuati in condizioni di clima estremo, con un'alimentazione scarsa e condizioni igieniche drammatiche, provocate dall'enorme massa di prigionieri catturati in poche settimane dai russi, nella confusione generale delle retrovie e nella scarsità di risorse di ogni tipo, carenti anche per le truppe sovietiche e per la popolazione locale. Con la firma dell'armistizio e la dichiarazione di "cobelligeranza" la condizione di questi prigionieri non migliora; infatti, le clausole sottoscritte, se prevedono la riconsegna di quelli alleati, non definiscono il futuro di quelli italiani nelle mani delle Nazioni unite. Del resto l'Italia continua ad essere considerato un paese sconfitto e in stato di occupazione, mentre i soldati italiani interessano come manodopera da utilizzare nelle situazioni più diverse. Così saranno liberati prima della fine della guerra solo alcune decine di migliaia di prigionieri: quelli residenti in Sicilia e catturati nell'estate del 1943, 16.000 tra i malati e i più anziani, 15.000 per ricostituire unità italiane in sostituzione di truppe alleate trasferite sul fronte francese. La maggior parte dei 600.000 prigionieri potrà rientrare solo a guerra conclusa, a volte dopo cinque e più anni di detenzione. |
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