15. GLI INTERNATI MILITARI ITALIANI CATTURATI DAI TEDESCHI DOPO L'8 SETTEMBRE

15.1. Quanti sono i militari italiani internati dai tedeschi?

Con l'armistizio dell'8 settembre 1943 l'Italia interrompe l'alleanza con la Germania di Hitler e mantiene una situazione di incertezza del proprio status internazionale fino alla dichiarazione di guerra alla stessa Germania, resa pubblica il 13 ottobre, che trasforma il nemico di ieri in "cobelligerante" degli alleati; questi ultimi, infatti, rifiutano di considerare l'Italia loro alleato, sottolineando che si tratta del nemico di ieri sconfitto che ora combatte al loro fianco.

La Germania attua il suo piano che tende a mettere fuori gioco l'Esercito italiano nelle zone di occupazione subito dopo l'armistizio, nel pomeriggio dell'8 settembre, disarmando in totale oltre un milione di soldati italiani; di questi circa 200.000 riescono a fuggire oppure ottengono rapidamente la liberazione in seguito a specifici accordi intervenuti tra i comandanti tedesco e italiano; altri muoiono nel corso dei trasferimenti verso i luoghi di destinazione oppure aderiscono a vario titolo alle forze nazifasciste; circa 650-700.000 raggiungono i luoghi di deportazione in Germania, in Polonia, in Bielorussia e in Ucraina; altri 100.000 rimangono nei Balcani.

Le cifre fornite sul numero dei soldati italiani internati dalla Germania sono abbastanza variabili; tra quelle più attendibili vi sono i dati forniti dallo storico Gerhard Schreiber, sulla base dell'esame delle fonti tedesche dell'Archivio militare federale di Friburgo, che indica in circa 644.000 i soldati italiani catturati dalle truppe tedesche:

- 207.000 sul territorio nazionale, di cui 183.000 nell'Italia settentrionale, di competenza del Gruppo armate B di Rommel, 24.000 nell'Italia centro-meridionale sotto il controllo del Gruppo armate sud di Kesserling;

- 49.000 in Francia, dal Comando ovest;

- 388.000 nei Balcani e nelle isole, da reparti alle dipendenze del Comando sud-est;

- 25 dai reparti impegnati sul fronte russo, più altri 70 che si trovavano presso reparti romeni.

Il numero degli internati tenderà a ridursi nel corso della guerra: nel febbraio 1944 risultano essere circa 617.000, mentre oscillano tra 595.000 e 610.000 quando gli "IMI" saranno trasformati in "lavoratori civili".

15.2. Perché "internati militari" e non prigionieri di guerra?

L'espressione con cui sono inquadrati i prigionieri italiani dopo la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, avvenuta il 18 settembre 1943, "Internati militari italiani", non è puramente formale, essa serve a distinguere i soldati italiani, assegnati a campi chiamati Stalags o Oflags, dagli altri prigionieri di guerra ai quali sono applicate le garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra del 1929 e rinchiusi nei Krigsgefangenenlager. Come già nella fase della cattura dei soldati, nelle prime settimane, quando il rischio, in caso di resistenza, era la fucilazione, in quanto "franchi tiratori", perché appartenenti ad un paese che non era considerato formalmente in guerra con la Germania, la condizione dei soldati ed ufficiali italiani "Internati" sarà diversa da quella degli eserciti delle Nazioni Unite, con la sola eccezione dei soldati dell'Armata Rossa, ai quali era riservata la sorte peggiore. Ad accentuare l'isolamento dei nostri soldati contribuirà l'impossibilità da parte del Comitato internazionale della Croce Rossa di fornire una qualsiasi assistenza, tale da ridurre la sofferenza per fame e per freddo, tanto che la mortalità dei soldati italiani sarà notevolmente più alta di tutti gli altri prigionieri di guerra, quattro volte superiore, ad esempio, a quella dei prigionieri francesi, che ricevevano regolarmente i soccorsi della Croce Rossa. Ad opporsi all'assistenza non sono solo i tedeschi, che hanno posto fuori delle convenzioni internazionali gli italiani; sono contrari anche gli inglesi, che continuano a vedere in questi soldati gli ex nemici da punire, ma pone ostacoli anche la Repubblica Sociale Italiana, che non farà nulla per trovare strade informali all'arrivo degli aiuti umanitari, come già avveniva per altri casi, come per i deportati politici. La RSI, almeno inizialmente, considera il passaggio dei soldati italiani da prigionieri di guerra a Internati militari un miglioramento di status che avrebbe facilitato il rientro in Italia e l'inquadramento nel nuovo esercito repubblicano dei soldati; al contrario, gli appelli per il reclutamento non avranno successi significativi.

La denominazione compare ufficialmente il 24 settembre, per ordine esplicito di Hitler. Il principale obiettivo dei tedeschi è quello di utilizzare il maggior numero possibile di italiani nell'industria bellica, a fianco o in sostituzione dei soldati russi, che avevano un'alta mortalità, per sopperire ad una carenza di manodopera che sta diventando sempre più grave. La Convenzione di Ginevra vietava espressamente l'utilizzo nel lavoro di prigionieri, perciò la specifica denominazione serviva bene a questo scopo.

Il comportamento tedesco non sarà dettato solo da ragioni di diritto internazionale: da una parte c'è la necessità di fare del caso italiano una dura lezione per gli altri paesi asserviti o alleati, per impedire ulteriori defezioni che indeboliscano ulteriormente la posizione strategica tedesca, già messa a dura prova dall'offensiva sovietica, ma vi è anche una ragione "psicologica" a motivare le asprezze e il rancore del soldato tedesco, la convinzione di essere stato "tradito" dall'ex alleato, un'esperienza che già si era fatta sentire trent'anni prima, quando, nel 1915, gli italiani avevano abbandonato l'alleanza con il Reich tedesco e l'Impero Austro-ungarico per schierarsi con le potenze "plutocratiche": Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti; un sentimento che doveva essere ancora forte, dato che non pochi soldati del Führer avevano combattuto, soprattutto se ufficiali o di origine austriaca, o lo avevano fatto i loro genitori, sul fronte italiano. Per queste ragioni la condizione dell'internamento di questi soldati sarà particolarmente dura; in genere gli internati sono assegnati a campi sotto l'autorità della Wehrmacht o dell'Aviazione; non sono rari, però, i casi in cui i soldati sono rinchiusi in campi di punizione (ad esempio per atti di sabotaggio o per gli ufficiali che si rifiutano di lavorare) o in campi di deportazione politica o razziale; alcune migliaia finiscono, così, nei campi di lavoro e di sterminio delle SS, come Dora e Dachau, i cosiddetti Konzentrationslager. Alla fine della guerra saranno 40.000-50.000 i militari italiani scomparsi nei campi tedeschi, morti d'inedia, per le sevizie, uccisi per rappresaglia e a seguito di esecuzioni sommarie. A questi vanno aggiunti coloro che sono morti dopo il rimpatrio, in conseguenza di gravi malattie, in particolare la tubercolosi, contratte durante la prigionia.

15.3. Il trattamento subito da ufficiali e soldati

Ai militari italiani internati, soprattutto agli ufficiali, viene, poco dopo l'arrivo nei campi, prospettata l'alternativa di collaborare con l'esercito nazista; con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana sono gli stessi inviati militari e civili di Mussolini a proporre il ritorno immediato in Italia in cambio dell'ingresso nelle formazioni militari fasciste repubblicane in via di riorganizzazione o di nuova costituzione. Sia in un caso che nell'altro le adesioni saranno limitate a quegli elementi già convinti politicamente e ideologicamente ad entrare nelle formazioni politicizzate, come le SS, che accettano anche adesioni di volontari stranieri. A partire dal mese di dicembre la propaganda diventa più efficace, anche per le conseguenze dell'internamento sul morale dei soldati e degli ufficiali, ai quali viene proposto non tanto l'adesione alla guerra fascista, quanto un rientro in Italia per il maggior numero di militari reclusi. Nel complesso un quarto degli ufficiali, circa 8.000 su 30.000, e il 10% dei soldati finisce con l'aderire all'offerta di rimpatrio.

Ufficiali e soldati non vivono le stesse condizioni di internamento. I primi, dopo il febbraio 1944, sono rinchiusi in grandi campi per ufficiali, gli "Oflager", dove, almeno inizialmente, sono esentati dai lavori pesanti; in primavera, però, anche agli ufficiali viene richiesto l'avviamento al lavoro volontario, in cambio di un miglioramento delle condizioni di vita, ma non tutti accettano. In data 4 marzo 1944 viene emanato il cosiddetto "decreto pallottola", che prevede, per gli ufficiali e sottufficiali prigionieri eventualmente fuggiti e ripresi (con l'eccezione di inglesi e americani), il trasferimento segreto in un reparto del campo di Mauthausen, dove sarebbero stati uccisi appunto con un colpo alla nuca. La scomparsa non sarebbe stata comunicata ufficialmente, in quanto il prigioniero "non sarebbe stato ripreso".

Nell'estate 1944, su richiesta di Mussolini, il governo tedesco trasforma i militari italiani in "lavoratori volontari" e dall'autunno anche per gli ufficiali comincia ad essere introdotto il lavoro forzato. I pochi che si rifiutano finiscono nei campi di punizione, in condizioni di sopravvivenza estremamente difficili. La liberazione avviene a partire dall'aprile 1945, anche se il rimpatrio completo si conclude solo nel mese di settembre.

Le condizioni generali dei soldati internati non sono diverse da quelle degli ufficiali, anche se peggiori sono la disciplina e il vitto, la differenza sta soprattutto nel lavoro forzato, che viene imposto da subito ai soldati, per 12 ore al giorno, con un riposo settimanale. Quelli che possono essere utilizzati come lavoratori qualificati sono assegnati all'Organizzazione Sauckel. Gli italiani si confondono con milioni di deportati, prigionieri russi, civili slavi, ebrei, deportati politici, tutti addetti a lavori indispensabili per l'economia di guerra, in genere molto faticosi, se non massacranti, anche per le condizioni ambientali in cui si svolgono, con un'alimentazione al di sotto del livello di sopravvivenza, con i prigionieri sottoposti alle minacce e alle punizioni, non di rado anche mortali. Moltissimi lavorano alla costruzione del Vallo orientale. Nella maggior parte, oltre la metà, sono impiegati nel settore minerario, metallurgico, chimico, quelli dove le condizioni sono peggiori, con una percentuale vicina a quella dei russi; al contrario, gli italiani e i russi sono poco impiegati in agricoltura, dove le condizioni sono migliori. Nell'agosto del 1944, gli IMI, su un totale di 424.328 unità, risultano così impiegati: 29.916 in agricoltura, 43.684 nelle miniere, 179.988 nell'industria metalmeccanica, 24.485 in quella chimica, 45.543 nelle costruzioni, 29.812 nei trasporti.  I casi più terribili riguardano i soldati costretti nelle miniere della Slesia e della Renania; i circa 1.000 deportati nel KZ Dora, addetti allo scavo di due enormi gallerie dove sono costruiti i razzi V2, dove muoiono 304 militari, ma vi sono rinchiusi anche 419 deportati politici italiani, di cui 119 muoiono nel campo; i 1.800 detenuti del carcere militare di Peschiera, quasi tutti deceduti a Dachau.

Il cambiamento di status in lavoratori civili, avvenuto nell'estate del 1944, ha poche conseguenze sulle condizioni dei soldati, già sottoposti al lavoro forzato. Tuttavia, al 1° gennaio 1945 sono ben 69.300 gli internati italiani che non hanno ancora firmato il provvedimento di passaggio allo stato civile. Alla fine della guerra, sul fronte orientale, i tedeschi in ritirata massacrano centinaia di soldati italiani. I sopravvissuti iniziano lentamente a rientrare in Italia per mezzo di lunghi convogli che attraversano l'Europa centrale sconvolta dalla guerra e percorsa da milioni di profughi di ogni tipo.