22. L'OCCASIONE PERDUTA DEI PROCESSI 22.1. Processare i criminali di guerra Nei primi mesi del 1945 il governo italiano è intenzionato a ricercare e processare i colpevoli delle stragi che avevano come vittime cittadini italiani. Ovviamente quest'azione non sarebbe possibile senza la piena collaborazione dei governi alleati. Nell'estate del 1945, Ferruccio Parri primo ministro, si giunge ad un accordo di massima tra governo italiano e quartier generale alleato: gli inglesi del War Crimes Group South West, con sede a Klagenfurt, avrebbero avviato un unico processo contro i generali tedeschi colpevoli di crimini di guerra; gli altri processi, con imputati dal grado di colonnello in giù, sarebbero stati attribuiti alla giurisdizione italiana. Sembra che la decisione di concentrare tutti i fascicoli dedicati alle istruttorie avviate o alle notizie relative ai crimini commessi nel corso della guerra presso la Procura generale del Tribunale supremo militare, sottraendoli così al giudice naturale, possa spiegarsi con la volontà di avviare quella ripartizione di competenze tra Italia e governi alleati. In effetti la decisione è presa dalla presidenza del Consiglio dei Ministri in data 2 ottobre 1945; circa le informazioni raccolte, la Procura "provvederà ad esaminarli per estrarne le denunzie del caso"; viene inoltre allegata una scheda per la denuncia dei fatti di competenza della Commissione per i crimini di guerra delle Nazioni Unite. La procedura seguita appare sotto molti aspetti criticabile, intanto perché la Procura generale militare non ha potere di indagine. Tuttavia questa decisione, almeno all'inizio, non comporta un blocco dei processi: fino al 1947 le Corti militari britanniche operanti in Italia celebrano 49 processi per crimini di guerra, tra questi quello contro i responsabili dell'eccidio delle Forze Ardeatine e contro Kesserling; tuttavia l'intenzione iniziale di celebrare un unico grande processo, come avverrà in Germania, non viene attuata. Nel dicembre 1947 l'attività degli alleati si interrompe, ma essi continuano a trasmettere all'Italia i dati relativi a diversi criminali di guerra, come quello di Reder, processato dalla giustizia italiana nel 1951. Soltanto una dozzina di procedimenti viene portata avanti. Anche per quanto riguarda la responsabilità di cittadini italiani collaborazionisti, dopo una fase iniziale in cui le Corti straordinarie di assise giudicano migliaia di responsabili di gravi reati, in genere commessi quando erano membri delle forze armate della RSI oppure assieme ai tedeschi, alla fine degli anni quaranta la Corte di cassazione procede all'annullamento o al rinvio a nuovo ruolo di molti processi già chiusi con condanne pesanti; in questo modo sono pochi i condannati ancora in carcere nel corso degli anni cinquanta, non più di dieci persone. Un dato assolutamente sproporzionato per difetto; si pensi che nello stesso periodo in Francia sono stati condannati a pene di detenzione o sono sotto processo 1.300 militari tedeschi, 1.700 in Iugoslavia, 400 in Belgio, 300 in Olanda, 150 in Norvegia. E' evidente la rinuncia della magistratura italiana, profondamente penetrata dalla cultura del Ventennio fascista, a svolgere la propria funzione istituzionale all'interno della nuova Italia repubblicana. Viceversa procedono a pieno ritmo i processi contro gli ex partigiani. Nel frattempo è cambiato il clima complessivo: il 31 maggio 1947 le sinistre sono escluse dal governo, è iniziata la guerra fredda e ci si trova nella necessità di riarmare la Germania. Inoltre, continuare a spingere per l'estradizione e la punizione dei criminali tedeschi, rafforzerebbe la richiesta della Grecia e della Iugoslavia per analoghe misure contro i criminali di guerra italiani degli anni dell'occupazione dei Balcani. In questo nuovo contesto storico-politico, la concentrazione dei fascicoli presso un'unica procura diventa funzionale al blocco dei processi, attraverso l'archiviazione delle indagini. Né il procuratore Umberto Borsari, né Mirabella, suo sostituto dal 1958, decidono il trasferimento dei fascicoli alle procure competenti. Nel 1960, come si vedrà, verrà invece decisa "l'archiviazione provvisoria" di tutti i fascicoli raccolti. 22.2. Il Processo di Norimberga Il massacro di Cefalonia è stato, nel dopoguerra, al centro di diversi processi. Innanzitutto, nel 1948, davanti al Tribunale Internazionale di Norimberga, nell'ambito del procedimento n.7 dei processi per crimini di guerra, dov'è inquisito il generale Lanz, già comandante del XXII corpo d'armata da montagna. Lanz potrà avvalersi delle dichiarazioni di sostegno di molti ex commilitoni, che in questo modo cercavano di salvare "l'onore delle forze armate tedesche". La responsabilità dell'eccidio viene rigettata su Gandin. Così si esprime l'avvocato difensore nell'arringa finale, dopo aver sottolineato, contro i dati fattuali disponibili, che Lanz si sarebbe addirittura prodigato personalmente per mitigare le richieste di Hitler, salvando la vita a numerosi ufficiali italiani: "il generale Gandin era un militare il quale come cittadino di uno stato allora ancora neutrale mosse guerra contro la Germania di propria iniziativa e sotto la sua responsabilità. Egli fece questo, inoltre, contro un ordine esplicito del suo comandante superiore italiano, che, tramite il suo capo di stato maggiore, aveva invitato tanto lui quanto il comandante italiano di Corfù a consegnare senz'altro le armi a Lanz. Soprattutto, poi, [Gandin agì] contro l'ordine, ripetutamente espresso, del suo comandante in capo di Atene, che si era arreso a nome di tutta l'11^ armata di fronte ai tedeschi, ed aveva espresso, per quanto riguardava la consegna delle armi, un consenso che impegnava anche il generale Gandin, che era un suo subordinato. Quando, nel settembre 1943, il generale Gandin condusse le sue truppe in combattimento contro le forze di occupazione tedesche, egli non agiva come un soldato di uno Stato che si trovava in guerra con la Germania, ma era, insieme a tutta la sua divisione, un franco tiratore". Nel corso dell'interrogatorio Lanz farà costantemente ricorso al "non ricordo", oppure, a proposito delle fucilazioni degli ufficiali, egli ribadisce che esse sarebbero avvenute secondo la legge marziale, affermazione chiaramente negata da tutti i sopravvissuti italiani agli eccidi. Questi testimoni, però, come quelli greci, non saranno sentiti nel corso del processo. Nella sua deposizione al processo Lanz dichiara: "... io avevo l'impressione che il generale Gandin cercasse un pretesto per non cedere le armi […] egli dava continuamente nuove ragioni per non cedere le armi, nonostante che sapesse benissimo quale fosse la situazione. La sua Armata gli aveva ordinato la resa […] la sua Armata si era arresa, ed io anche avevo dato l'ordine di cedere le armi". Il Tribunale, nella sentenza emessa il 19 febbraio 1948, accetterà parzialmente l'interpretazione della difesa di Lanz, limitando così la condanna a 12 anni, di cui solo cinque scontati effettivamente, nonostante l'opinione del generale Taylor, capo dell'accusa in questo processo: "Questa strage deliberata di ufficiali italiani che erano stati catturati o si erano arresi è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato. Questi uomini, infatti, indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra. Erano guidati da capi responsabili che, nel respingere l'attacco, obbedivano ad ordini del maresciallo Badoglio, loro comandante in capo militare e capo politico debitamente accreditato dalla loro Nazione. Essi erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, a considerazione umana e a trattamento cavalleresco". 22.3. La Procura militare indaga La strage della Acqui ha avuto anche in Italia un paradossale strascico giudiziario, che ha finito per mettere uno contro l'altro i parenti delle vittime e i sopravvissuti, tra i quali alcuni dei protagonisti della resistenza antitedesca, guastando in parte la memoria di quella che dovrebbe essere considerata una pagina eroica della nostra storia recente. Il Tribunale militare territoriale di Roma ha aperto, nel 1957, in seguito alle denunce del genitore di un caduto, un'istruttoria formale contro 28 ufficiali italiani, accusati di "cospirazione e rivolta" contro il generale Gandin, che sarebbe stato spinto allo scontro coi tedeschi contro la sua volontà. Riportiamo due stralci dalla richiesta di rinvio a giudizio: "Rivolta continuata perché tra l'8 e il 15 settembre 1943, in Cefalonia, essendo in servizio armato, con azioni diverse esecutive di un medesimo disegno criminoso, rifiutava insieme ad altri numerosi militari obbedienza agli ordini del comandante la divisione Acqui, generale Antonio Gandin, di astenersi da ogni attività ostile e di predisporsi alla cessione ai tedeschi delle armi pesanti". "Cospirazione perché tra l'8 e il 15 settembre 1943, in Cefalonia, si accordavano tra loro per indurre la truppa alla rivolta e per commettere atti di ostilità contro i tedeschi al fine di creare il 'fatto compiuto' e impedire così al comandante la divisione Acqui, generale Antonio Gandin, l'esercizio dei suoi poteri". Tra gli imputati i capitani Renzo Apollonio e Amos Pampaloni. Contemporaneamente, l'istruttoria viene aperta contro 30 militari tedeschi accusati dell'uccisione di prigionieri di guerra. Alla fine del 1956, il Procuratore Militare aveva chiesto alle autorità di governo, in particolare al Ministro degli Esteri Martino, di attivare il procedimento di estradizione per gli imputati, da presentare alla Repubblica federale di Germania. La magistratura tedesca rifiuta nel frattempo di collaborare con quella italiana: in Germania, subito dopo la guerra, molti ex ufficiali tedeschi, anche quelli condannati per crimini di guerra, sono stati reinseriti nell'esercito della Repubblica federale tedesca, e questo col consenso esplicito del governo inglese e di quello americano, tra questi l'ex maggiore Reinhold Klebe, cioé uno dei massimi responsabili della strage di Cefalonia, che nel 1956 era ancora in servizio nei reparti di truppe da montagna; con l'ingresso della Repubblica federale tedesca nella NATO, intorno al 1956 vengono archiviati, nei paesi occidentali, la gran parte dei procedimenti attivati contro militari tedeschi per crimini di guerra. E' in questo contesto che nel mese di ottobre del 1956 si sviluppa un carteggio sull'eventualità di richiedere l'estradizione di militari tedeschi, come richiesto dalla Procura militare di Roma, tra due ministri italiani, Gaetano Martino, agli Esteri, e Paolo Emilio Taviani, allora alla Difesa, alla fine essi concordano che è opportuno mettere una pietra sopra l'inchiesta: in tempi di guerra fredda e di riarmo della Germania federale, non conviene mettere in cattiva luce la "gloriosa" tradizione della Wehrmacht. La ragion di stato finisce così per prevalere sulla ricerca della verità e sulla punizione dei colpevoli. Tra i militari tedeschi nominati nelle carte studiate da Martino vi è quello del generale di aviazione Wilhelm Speidel, già comandante in Grecia nel 1943, fratello del generale Hans Speidel, designato dalla Nato al comando delle truppe di terra del settore centrale di Shape. Il ministro sottolinea "gli interrogativi che potrebbe far sorgere da parte del Governo di Bonn una nostra iniziativa che venisse ad alimentare la polemica sul comportamento del soldato tedesco. Proprio in questo momento, infatti, tale governo si vede costretto a compiere presso la propria opinione pubblica il massimo sforzo allo scopo di vincere la resistenza che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle forze armate, di cui la Nato reclama con impazienza l'allestimento". Con sentenza dell'8 luglio 1957, il giudice istruttore militare assolve gli ufficiali italiani perché la loro attività non costituisce reato. La seconda parte dell'inchiesta viene proseguita ancora per qualche anno, inizialmente vengono prosciolti 21 militari tedeschi, poi, nel giugno 1960, il procedimento si conclude definitivamente col proscioglimento dei nove imputati rimasti. 22.4. La giustizia tedesca Qualche anno più tardi, nel 1964, dopo la pubblicazione del romanzo di Venturi Bandiera bianca a Cefalonia, e grazie all'interessamento e alle pressioni del cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal, viene condotta un'istruttoria da un giudice di Dortmund, il procuratore Nachtweh, l'inchiesta si conclude con l'archiviazione, comunicata allo stesso Wiesenthal nel 1969. Nonostante abbia sentito 231 testimoni, il procuratore tedesco non riesce a rintracciare alcuni dei protagonisti tedeschi della strage. Se Hirschfeld era morto in Ucraina all'inizio del 1945, altri responsabili sono però ancora vivi, in particolare Lanz, Barge, Heidrich e Kuhn. Sono sentiti solo due greci e due italiani: lo scrittore Marcello Venturi e padre Luigi Ghilardini. Ai sensi della legge tedesca, l'impossibilità di dimostrare che si fosse trattato di assassinio aggravato e non di omicidio semplice, cioé di un delitto particolarmente efferato oppure commesso per bassi motivi, rende obbligatoria la chiusura delle indagini. All'interno della Procura lavoravano allora magistrati che erano stati iscritti ad organizzazioni nazionalsocialiste. Nel 1965, il governo tedesco, considerando che in quell'anno scadevano i termini di prescrizione per molti dei reati connessi ai procedimenti per crimini di guerra, richiede a quello italiano di comunicare notizie e dati su eventuali procedimenti su reati non ancora prescritti; il ministro della Difesa, il 16 febbraio 1965, risponde affermando che "l'autorità giudiziaria italiana conserva il pieno esercizio della propria giurisdizione", quindi informa di 20 casi, che saranno selezionati e trasmessi, tra quelli particolarmente documentati. Non si è a conoscenza di come si sia attivata la giustizia tedesca. Di recente vi è stata una ripresa di interesse da parte della televisione tedesca sui fatti di Cefalonia. Un primo servizio è stato curato dalla tv pubblica Zdf nel marzo 2001. Nel gennaio 2003, un secondo ampio filmato, Mord auf Kephallonia- Eccidio a Cefalonia, è stato trasmesso dal primo canale Ard. In questo nuovo clima di attenzione, che contrasta col totale silenzio dei decenni precedenti, la stessa Procura di Dormund, competente per i crimini di guerra, a partire dal 2001 ha riaperto le indagini, che continuano tuttora. Ecco cosa dice in un'intervista a Il Tempo del novembre 2001 il procuratore Ulrich Maass: "Sulla base delle mie ricerche sono riuscito ad individuare una cinquantina di ufficiali che all'epoca dei fatti si resero responsabili di quei crimini. Dieci sono viventi". Nell'archiviazione del 1969 pesò anche il tipo di accusa, "omicidio colposo di subordinato (i prigionieri italiani)", che per la legislazione tedesca prevede la prescrizione dopo 15 anni. Ora si parla invece di omicidio "volontario" e "concorso in omicidio". Ancora Maass: "Abbiamo avuto la possibilità di consultare gli archivi americani, inglesi e austriaci. E c'è la possibilità di esaminare i documenti raccolti sulla strage dalla Stasi, i servizi segreti dell'ex Germania dell'Est". Dalle prime indagini sono emersi i nomi di almeno duecento Gebirgsjaeger (le truppe speciali di montagna); dieci di loro sono stati rintracciati, nove ufficiali e un sottufficiale, che hanno tra i 79 e 92 anni. Anche l'apparizione di diari, memorie e interviste di militari tedeschi sta aprendo uno spiraglio nella coscienza dell'opinione pubblica tedesca. Alfred Richter, un sottufficiale presente a Cefalonia, intervistato dalla rete televisiva tedesca Zdf, ricorda: "Vengono sparati soltanto pochi colpi, poi gli italiani agitano i fazzoletti bianchi e cominciano a venir fuori a gruppi, correndo. Ma quando noi raggiungiamo l'altura, li troviamo tutti per terra, morti, sono tutti stati colpiti alla testa. Quelli del 98° li hanno dunque uccisi dopo che si erano arresi". Due compagnie italiane si arrendono al battaglione di Richter: "Non vogliono combattere contro di noi e pensano di aver salvato la vita arrendendosi. Torniamo a Frangata e consegnamo i prigionieri. Ma qui li attende una sentenza terribile. Li portano vicino al ponte, nei campi recintati da muri fuori dalla città, e li fucilano. Rimaniamo due ore sul posto e per tutto il tempo sentiamo i colpi senza interruzione..., le grida arrivano fin nelle case dei greci. Anche medici e preti partecipano alle esecuzioni. Un gruppo di soldati bavaresi prova a rifiutarsi, ma un ufficiale li minaccia di mettere anche loro al muro. Fa una figura tragicomica un prigioniero, che si salva la vita salendo su una pedana e cantando con bella voce arie d'opera italiana, mentre i suoi compagni vengono uccisi". Viene anche rintracciato il capo del plotone d'esecuzione che fucilò gli ufficiali a capo S. Teodoro: "Nemmeno mia moglie lo sa, ma fui io, in quel settembre del 1943, a comandare il plotone d'esecuzione di Cefalonia. Vidi gli ufficiali italiani cadere in silenzio sotto i nostri colpi, e ancora oggi ricordo quell'ultimo grido del generale Antonio Gandin, il comandante della guarnigione italiana, prima di cadere ucciso: Viva il Re, viva la Patria". 22.5. L'armadio della vergogna I continui ostacoli posti alle indagini provocano nel corso degli anni numerose polemiche, creano disillusione e rancore tra i sopravvissuti e i familiari delle vittime, che in più occasioni rimproverano alle Istituzioni di averli dimenticati. Molti documenti cominciano ad uscire solo da qualche anno, contribuendo a fare luce su alcuni particolari ancora sconosciuti. Nel 1994, il procuratore militare di Roma, Antonino Intelisano, mentre sta indagando su due criminali di guerra, Erich Priebke e Karl Hass, si imbatte, all'interno del palazzo di via Acquasparta a Roma, sede della Procura militare, in un armadio con le ante rivolte contro il muro, in una stanza da tempo abbandonata, chiusa da un cancello; l'armadio contiene 695 fascicoli sulle stragi fasciste e naziste, il timbro risale al 1960, ai tempi in cui era procuratore militare Enrico Santacroce, a cui spetta la decisione di archiviare "provvisoriamente" i fascicoli. In un registro è contenuto l'elenco di 2.274 procedimenti iscritti nel "Ruolo generale dei procedimenti contro criminali di guerra tedeschi", quello su Cefalonia è il numero 1.188. Vi sono anche i nomi dei militari tedeschi coinvolti nel procedimento: tenente colonnello Barge, maggiore Hirschfeld, maggiore Nennstiel, capitano von Stoephasius, tenente Radenaker, sottotenenti Lepiold, Stettner, Heindrich, Bauer, Fremmel, Lulai, Gregor, Wiener, Hart, Kuller, Kiker, Kaiser; l'accusa è "Violenza con omicidio art. 211 c.p.m.g."; i tribunali di riferimento: "Ministero Esteri per Londra, Procuratore militare di Roma". In realtà l'archivio viene occultato per 44 anni. In occasione dell'indagine avviata dal Consiglio della magistratura militare, le cui conclusioni sono del marzo 1999, viene presentato il carteggio tra i ministri Martino e Taviani, che così diviene di pubblico dominio. |
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