L'educazione nel Settecento

La tradizione verbalistica e retorica di un'istruzione non rinnovata nel profondo né dall'Umanesimo né da altri tentativi di razionalizza­zione dell'insegnamento linguistico, come quello dei giansenisti di Port-Royal, si scontra ancora con il progresso scientifico-tecnico. Alle artes sermocinales si contrappongono sempre più le artes reales e mechanicae, alla conoscenza del mondo antico quella del mondo mo­derno, enormemente esteso dalle scoperte geografiche, all'educazio­ne dei ceti privilegiati alle armi e alle lettere l'educazione di tutti gli uomini ad attività produttive moderne.

L'istruzione dei laici, che il Concilio di Trento aveva ignorato, ha in­vece impegnato i protestanti. Sotto il loro stimolo, nuovi ordini reli­giosi cattolici rinnovano la loro azione a favore dei fanciulli dei ceti popolari, per istruirli nei nuovi modi dell'istruzione professionale; e tra queste iniziative alcune riguardano le donne, tradizionalmente escluse del tutto o in parte dall'istruzione.

Notevoli in Francia, più o meno tra Sei e Settecento, le scuole pro­fessionali organizzate da Giovanni Battista de La Salle, che si diffon­deranno anche in Italia. Nella sua Conduite des Ecoles chrétiennes (1702 e 1720) egli stabilisce regole minuziose su «gli esercizi che si de­vono fare e la maniera in cui li si deve fare». Ne risulta una scuola or­ganizzata per «lezioni», cioè gradi o classi, nelle quali si studia in quest'ordine: 1. tavola murale o dell'alfabeto, con l'eterno «a-b-e»; 2. tavola delle sillabe, con l'eterno « bi-a-ba»; 3. sillabario o primo «libro compiuto»; 4. e 5. secondo libro, di istruzioni cristiane, sempre da compitare e sillabare; 6. terzo libro da leggere «per pause», cioè «per periodi e di seguito, non fermandosi che ai punti e alle virgole», e un po' di grammatica e lettura dei numeri; 7. dei «latinanti», per leggere il Salterio, prima per sillabe, poi per pause; 8. scrivere e leggere nel li­bro della Civiltà cristiana.

Molto curati gli aspetti tecnici della scrittura, col cerimoniale che avevamo già visto nel Garzoni: «Il maestro baderà che gli scolari prendano l'inchiostro con discrezione, intingendo solamente la punta della penna e scuotendola leggermente poi nel calamaio e mai per terra....; dovrà disporre egli stesso la mano dello scolaro...: avrà cura che metta le tre dita sulle tre intaccature della penna, che egli stesso avrà fatte col temperino» (ivi, pp. 45 e 55). E il rituale di come tempe­rare le penne, durante il quale gli scolari: «si terranno a capo scoperto fino a che (il maestro) non gliela avrà resa, e ricevendola, gli baceran­no la mano e gli faranno un inchino» (ivi, p. 58).

Altrettanto scrupolosa la disciplina, con la consueta ossessione ses­suofobica: « I maestri ispireranno spesso ai loro scolari un grande di­stacco dalla compagnia delle ragazze, e li impegneranno a non me-scolarsi mai con loro» (ivi, p. 159). Inoltre «faranno attenzione che non incrocino mai le gambe una sull'altra, che non mettano le inani sotto i loro abiti, in modo che non possano far nulla contro la purez­za» (ivi, p. 107). Cose antiche: non ne avevano già accennato Aristo­fane, Cicerone e Giovenale? Ma qui si arriva all'ossessione: affinché due ragazzi non andassero al gabinetto insieme, si dava loro un basto­ne, la cui mancanza serviva da segnale. E poi la liturgia dei «segni» di comando, .fatti dal maestro con le mani, gli occhi, la testa e la bacchet­ta, e le ricompense e le «correzioni» con la ferula e le verghe. La ferula, usata solo dal maestro, «è uno strumento di due strisce di cuoio cucite insieme: sarà lunga dieci o dodici pollici, compreso il manico per te­nerla; la palma sarà ovale, di due pollici di diametro» (ivi, p. 146). La disciplina o verga « è un bastone lungo da 8 a 9 pollici , in cima al quale devono esserci 4 o 5 corde, in cima a ciascuna delle quali ci saranno tre nodi» (ivi, p. 147). Le correzioni «ordinarie con le verghe si faran­no nell'angolo più appartato e più oscuro della classe, ove la nudità di chi è corretto non possa essere vista dagli altri»; ma per le «correzioni straordinarie» si tollera la nudità: «devono essere fatte pubblicamen­te, cioè alla presenza degli scolari e in mezzo alla classe», o di tutte le classi (ivi, p. 173).

Negli stessi anni in Italia, in una zona depressa come l'Alto Lazio. due suore, Rosa Venerini e Lucia Filippini, riescono ad eludere la se­verità del Concilio di Trento nei riguardi dei conventi femminili, che aveva portato a molti casi di ribellione, testimoniati da una letteratu­ra che va dalle satire del Menzini, ai lamenti delle monacate a forza, alla monaca di Monza del Manzoni. Esse fondano l'ordine delle Maestre Pie, «non costrette da regole né dei conventi né della profes­sione religiosa», impegnate in un'azione di istruzione e proselitismo esterna. La Dottrina cristiana delle zitelle (1704 e 1717) regola le loro scuole, destinate alla formazione di suore maestre, ma aperte ad altre fanciulle, consentendo loro di non vestire l'abito monacale e di uscire vici giorni di vacanza (ivi, 1, 2; li, 9). La loro preparazione, volta anzi_ lutto «ad amare e servire Gesù Cristo», prevede «ogni sorta di lavoro manuale conveniente alle donne» e inoltre «il leggere a tutte, lo scri-vere solamente quelle che devono farsi religiose o maestre» (ivi, vi, 1 '). La didattica resta di tipo catechistico, fatta di «interrogazioni e

 

risposte» e di recitazione a memoria come per Walafried Strabo, cioè «prendendosi poco fastidio... se non si intende bene ciò che si dice:

basta che le fanciulle sappiano le cose a mente». E non manca, accan­to alla raccomandazione di «correggere con tutta la carità», anche il consueto ricorso a «qualche penitenza o pochi colpi di disciplina» (ivi, vi, 45); ma il massimo di rigore si esercita contro «le fanciulle che non hanno buon nome o fanno all'amore», le quali «debbono essere licenziate» (ivi, vi, 44). Con tutti questi limiti, specchio dei tempi, queste scuole femminili rappresentano un fatto nuovo e coraggioso.

li bisogno di innovare appare anche nella nuova ondata di satire e critiche che continua ad abbattersi sulla scuola, in Europa e in Italia. Nel 1721 Montesquieu nelle Lettres persanes fa dire al suo protagonista persiano che a Parigi c'è «un numero infinito di maestri di lingue d'arti e di scienze, che insegnano quello che non sanno», «segno - ag­giunge - di talento davvero considerevole, perché ci vuole poca intel­ligenza per mostrare quello che si sa, ma ce ne vuole infinitamente per insegnare quel che si ignora» (Lettera 58), Nel 1725 Daniel Defoe nel Robinson Crusoe critica l'inconsistenza degli insegnamenti teologici ed esalta le scienze matematiche e le capacità costruttive, quasi riecheggiando Leonardo. Nel 1726 Jonathan Swift nei Viaggi di Gulliver deride anche le nuove accademie, immaginando nell'isola di Laputa, sospesa tra le nuvole, i sapienti «impartire istruzioni ispirate a concetti troppo astratti per l'intelligenza dei loro operai»; e nella città di Lagado le accademie degli inventori impegnarsi in vane ricer­che, come a estrarre i raggi di sole dalle zucche o arare coi maiali, e al­tre fanfaluche (trad, it , Torino 1.945, p. 1.2.5).

Anche in Italia qualche cosa si muove. In Piemonte nel 1734, in seguito seguito a un piano elaborato da Scipione Maffei, si pubblicano testi scolastici, come una Raccolta di prose e poesie ad uso delle Regie scuole, curata dal Ceva; in Lombardia Ludovico Vuoli, dopo avere studiato le scuole asburgiche, pubblica il Metodo di insegnare a leggere; a Modena si pubblica un Piccolo libretto di prose italiane per le basse scuole; a Napoli Giambattista Vico pubblica, dopo altre sue orazioni inaugu­rali dei corsi universitari, il De nostri temporis studiorum ratione (1708).

Ma il fatto di maggior rilievo è la tendenza a stabilire un legame tra istruzione e i nuovi modi della produzione: la moderna "rivoluzione industriale" è destinata a influire, per diverse vie, anche sui modi dell'istruzione.

Alla, produzione della bottega artigiana, dove in ogni ramo della divisione sociale dei lavoro si compie intero il ciclo della produzione, si affianca dapprima il sistema del lavoro a domicilio, controllato dal mercante capitalista, che esclude i lavoratori dal possesso delle materie prime e del prodotto; poi si passa agli opifici, dove il mercante raggruppa gli artigiani a svolgere ancora l'intero processo del loro lavo­ro; poi nell'opificio si introduce la parcellizzazione dell lavoro all'in­terno di ogni singolo ramo della produzione; infine si giunge alla fab­brica moderna, dove carbone e vapore e le macchine operatrici sosti­

tuiscono la forza motrice vivente e il lavoro dell'uomo, ridotto ad ac­cessorio delle macchine. Così la fabbrica accentra in sé gran parte della produzione, distrugge con la concorrenza la produzione artigia­nale, rende superflua la specializzazione e l'abilità del lavoro umano, e provoca un profondo sommovimento demografico. La popolazione si trasferisce dalle campagne e dai vecchi centri artigiani nei nuovi centri urbani, sorti presso le fonti di carbone e di acqua. E, non essen­doci più bisogno di lavoratori esperti, si ricorre largamente al lavoro infantile, sottraendo gli adolescenti all'apprendistato artigianale, che viene abolito per legge in molti Stati, e a ogni processo d'istruzione.

Più tardi gli stessi sviluppi di quella che Marx chiamerà «la moder­nissima scienza della tecnologia», esigeranno un minimo di istruzio­ne per accudire le macchine e seguirne i perfezionamenti, e allora si accantonerà il lavoro dei fanciulli. E che farne, se non riandarli a scuola? La scuola pubblica per tutti nasce, sì, per il filantropismo dei pedagogisti e per l'azione illuminata dei governi, ma solo quando le condizioni oggettive lo renderanno possibile e necessario. Fabbrica e scuola pubblica nascono insieme. E si interverrà per diverse vie: o ri­petendo in fabbrica i consueti modi dell'apprendistato artigianale, o introducendo nelle scuole, separate dalla fabbrica, nuove scienze e nuove tecnologie che preparino al lavoro industriale. Non è un pro­cesso lineare: accanto alle nuove forme della produzione industriale fondata sull'uso delle macchine permangono superstiti forme della produzione artigianale, e nascono nuove produzioni sussidiarie a quelle della fabbrica, e a questi sviluppi si accompagna il permanere delle vecchie ideologie. La nostra storia dovrà seguire queste diverse ispirazioni e questi contraddittori sviluppi.

Così, sul piano delle idee siamo ormai al movimento che chiamiamo Illuminismo: ad esso occorre dunque riferirsi, e in particolare alla grande Enciclopedia delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751-1765). Nel Discorso preliminare, Denis Diderot, il vero padre dell'Enciclopedia, distinguendo tra la speculazione delle scienze e la pratica delle arti, conclude che «la superiorità che si accorda alle prime sulle se­conde è senza dubbio ingiusta per molti aspetti». E nella voce «Art» spiega: «Chi abbia solo la geometria intellettuale, è di solito un uomo piuttosto maldestro; e un artigiano, che abbia solo la geometria sperimentale, è un operaio assai limitato». Come sono lontane le satire egizie dei mestieri e le discriminazioni platoniche, aristoteliche, cicero niane, umanistiche! Diderot visita le botteghe artigiane, già toccate dai nuovi sviluppi industriali e, osservando la divisione del lavoro di fabbrica (o dell'opificio), conclude che così «ciascuno si sbriga bene e presto, e il prodotto fatto meglio è anche quello che si ha a più buon mercato».

Ma nello stesso ambito, il più geniale e contraddittorio di questi personaggi, Rousseau, mostra di non accorgersi di questi sviluppi, e si at­tarderà a discutere di quale mestiere artigiano sia più adatto al suo Emilio, rampollo di nobili. E rifiuta quelli effeminati proposti da Locke per il gentiluomo, quelli sporchi e faticosi di maniscalco, fabbro, muratore o «ancor meno di ciabattino», e «quegli stupidi mestieri i cui operai, senza alcuna industriosità e ridotti ad automi, esercitano le loro mani sempre negli stessi lavori»; e tra questi anche quei calzettai che Diderot aveva apprezzato. Non solo, ma immagina il suo Emilio, impoverito, andare in giro con la cassetta di attrezzi da falegname a offrire il suo lavoro a domicilio (che andava scomparendo) nella certezza di trovarne (Libro ili). Insomma, Rousseau è un piccolo borghese che della nuova produzione industriale vede (e non mancano!) soltanto le contraddizioni.

E ancora peggio va nell'Enciclopedia con la voce «Educazione», affidata a César Dumarsais. Costui ribadisce pari pari la discriminazione sociale, perché, dice, «è evidente che non c'è alcun ordine di cittadini in uno Stato, per i quali non ci sia un tipo di educazione loro proprio»: uno per i figli dei sovrani, dei grandi, dei magistrati ecc., e uno per i fanciulli della campagna, ai quali insegnare, oltre alla religione, «anche i doveri e le virtù del loro stato, affinché agiscano con più riconoscenza» (p. 397). Certo, la riconoscenza degli sfruttati verso gli sfruttatori: che ci stava a fare questo benpensante accanto a Diderot? Intanto Louis René de la Chalotais , nel suo Essai d'éducation nationale, progettava un piano d'educazione nazionale: « E giusto che i giovani dello Stato vengano educati da personale dello Stato»; e Mably, fratello del Condillac, proponeva «un'istruzione pubblica e generale», in vista della «più perfetta eguaglianza tra i cittadini, o al­meno tra le differenti classi» (p. 358). In Germania, Johan Bernard Basedow nella Relazione ai filantropi, del 1768, ribadiva che «l'importanza dell'educazione e dell'istruzione richiede la suprema vigilanza di un autorevole ministero dello Stato» (Paragrafo 7). E nel 1766 Goethe apriva il suo Faust con la critica delle quattro facoltà universitarie: «Ho studiato a fondo, ahimè, filosofia, giurisprudenza e medi cifra, e purtroppo anche teologia, ed eccomi qui, povero pazzo che ne so ora quanto prima»; e negli Anni di noviziato di Wilhelm Meister tracciava il disegno di una ideale «provincia pedagogica». dove l'educazione è una lieta vicenda di giochi e di scoperte. Così tra aperture e chiusure proseguiva il dibattito sull'educazione al cospetto dei profondi mutamenti dei modi di produzione in corso.

Sotto tali stimoli i governi "illuminati" ripropongono il conflitto tra i due poteri, politico e religioso, nel campo dell'educazione: l'imperatrice Maria Teresa d'Austria afferma: «L'istruzione è e rimane in ogni tempo un fatto politico» (ein Politikum): ed era un manifesto della modernità laica. Sotto il loro incalzare, l'ordine dei Gesuiti, già espulso da molti Stati, viene soppresso nel 1773 da papa Clemente XIV. Presto Prussia e Austria si porranno all'avanguardia delle riforme scolastiche, affidate a Ignaz von Felbiger: sorte le scuole scientifico­tecniche, si disegna una riforma dell'intero sistema scolastico, prevedendo quattro ordini di scuole: Trivialschule, scuola del trivio o dell'abbiccì; Hauptschulen, scuole principali o professionali, tra le quali una Normalschule, scuola elementare da servire di norma per le altre e per la preparazione dei loro maestri; indi ginnasio e università. E si istituiscono scuole variamente specializzate per l'industria e il commercio. Analoghi interventi si ebbero in Baviera, Sassonia, Polonia, che si giovò dei consigli di Rousseau, e nella Russia di Caterina II.

 

Anche in Italia si assiste a un grande fervore di ricerche e di proposte in campo educativo, da parte di privati sostenuti dai poteri locali. A Napoli, il Genovesi lamentava che «in confronto a molti di noi apparirebbero colti e gentili i samoiedi per il loro saper leggere e scrivere e ogni forma di urbanità»; scriveva per le scuole una Logica pei giovinetti e testi dì fisica, e in un suo Piano di educazione proponeva di sostituire le scienze positive alla scolastica; e nelle Lezioni accademiche (1754) e nelle Lezioni di commercio, ossia di Economia civile del 1.765 criticava gli aspetti retrivi della concezione del Rousseau. E il Filangieri nella Scienza della legislazione, del 1780, affermava che «nessuna classe di cittadini dovesse essere esclusa dalla pubblica educazione»; pur soggiungendo che l'istruzione «per essere universale non deve essere reniforme», ma differenziarsi tra quelli che «servono la società con le braccia e quelli che la servono o potrebbero servirla coi loro talenti» (pp. 740-741). A Milano Cesare Beccaria denunciava che «in una capitale che conta cento e ventimila abitanti, appena trovereste una trentina di persone che amino istruirsi», e sembra una malinconica risposta alle felici statistiche di Bonvesin da Riva, di mezzo millennio prima. L'abate Parini, membro di una Commissione per la riforma degli studi, denunciava «la bassezza e la corruttela delle scuole poste sotto la direzione dei frati», cioè dei Gesuiti. A Venezia Gaspare Cozzi, su incarico della Repubblica, proponeva una moderna scuola di lavoro: «Perché non s'aprono scuole, costà di fucine e martelli, colà di seghe e pialle, in altro luogo di salamoie?» (L'inganno delle scuole, in «L'Osservatore», 176.1). E Francescantonio Grimaldi chiedeva un'educazione differenziata per campagne, villaggi e città; Domenico Soresi scriveva Dell'educazione del minuto popolo (1774); Giuseppe Gerani stampava a Londra un Saggio sulla popolare educa­zione (1773).

E qualcosa si nuove, non senza contrasti, anche per l'educazione delle donne. Il Gozzi, ad esempio, è contrario, ma d'Alfieri prende in giro il nobile padre che consiglia all'abatino, maestro della figlia, di insegnarle solo frivolezze: «Fatela leggicchiar di quando in quando: Metastasio... le Ariette; ella n'è pazza». Ma continuano a emergere alcune "eccezioni": Anna Morandi ricopre la cattedra di anatomia a Bologna e Maria Laura Bassi la cattedra di filosofia o fisica; Maria Gaetana Agnesi scrive le Istituzioni analitiche aduso della gioventù italiana (1748); Maria Pellegrina Amoretti si laurea con una tesi De iure dotiun apud Romanos (1777), e Panini le dedica l'ode La laurea. L'Algarotti scrive il Newtonianismo per le darne.

Questi interventi e la soppressione dei Gesuiti stimolano l'iniziativa statale. A Napoli, già nel 1768, Ferdinando IV su ispirazione del ministro Tanucci, dichiara che «fra le cure principali della sovranità, importantissima è quella che riguarda l'educazione della gioventù e la direzione degli studi», e obbliga i conventi ad aprire le loro scuole ai laici. A Milano si nomina una Deputazione degli Studi con G. Rinaldo Carli e una Delegazione delle scuole con Francesco Soave; e così un po' ovunque.

Naturalmente queste iniziative trovarono la resistenza della Chiesa cattolica: Pio vi, che ebbe a scontrarsi con i sovrani "illuminati" come Giuseppe ti d'Austria, definiva gli illuministi «maestri menzogneri, filosofi sciagurati, lupi rapaci..., che vanno imprecando e gridando fino alla nausea che l'uomo nasce libero, e non è soggetto a nessuno» (Inscrutabili divinae, del 1775, pp. 124,176).

 

 

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