La Rivoluzione

Ormai, ben oltre le proposte degli intellettuali e le rifornì dei so­vrani illuminati, siamo alle rivoluzioni.

Durante la rivoluzione dei coloni inglesi d"America (1765-1783) Benjamin Franklin propugna un'istruzione in cui, accanto alle lingue., morte e vive, e alle moralità, si apprendano «tutte le branche utili della scienza e delle arti liberali»; e il presidente Jefferson decreta una scuola elementare gratuita per tutti i fanciulli dai sette ai dieci anni. In Francia, durante la campagna per l'elezione degli Stati generali nel 1789, i cahiers de doléances pullulano di proposte sull'istruzione, e nelle assemblee che si succedono l'una all'altra per circa un lustro, si presentano e si votano molti progetti di legge. Negli Stati generali del 1789, poi Assemblea Costituente, il Talleyrand propone un sistema di «istruzione pubblica, gratuita per quanto riguarda le parti dell'istru­zione necessaria a tutti gli uomini». Nell'Assemblea legislativa seguita nel 1791, il Comitato per l'istruzione sancisce che «l'istruzione pubblica deve stabilire un'uguaglianza di fatto tra i cittadini», e la leg­ge Le Chapelier del giugno 179.1 sopprime le corporazioni d'arte e mestiere e il loro apprendistato. Poi, il 17 agosto 1792 il Condorcet, nel suo Rapport sur l'instruction publique, propone un'istruzione volta a «procurare l'indefinita perfettibilità dell'uomo, che sia unica, gra­tuita e neutra», nella quale, «escluso l'insegnamento di ogni culto religioso, la morale sia separata da, ogni religione particolare», e che sia a cura dello Stato ma «indipendente da ogni autorità politica» che non sia l'Assemblea dei rappresentanti del popolo. Uno stupendo manifesto dell'educazione democratica, che oggi sembra in parte obliato. Poi la Convenzione approva il progetto Lepeletier, sostenuto da Robespierre, di un'educazione «gratuita, letteraria, intellettuale, tisica, morale e industriale». Conteneva due principi nuovi: l'educazione del corpo per tutti e non soltanto per i nobili, e l'educazione al lavoro per tutti e non soltanto per i proletari. Ma col Termidoro, la legge Daunou del 24 ottobre 1795, pur confermando il compito dello Stato, la libertà d'insegnamento e il diritto dei privati, cancellava il i principio dell'obbligo e della gratuità.

In Italia, sulle orme della Rivoluzione francese, molti "giacobini" di varie tendenze presentavano i loro progetti: Matteo Galdi, Nicio Eritreo, Enrico Michele L'Aurora, Giovanni Antonio Ranza, e Angelotti, Gioia, Compagnoni, Piattoli, Salfi. La discussione sull'istruzione assume una. formulazione roussoiana: debbono tutti i cittadini essere filosofi, o no"? Il Galdi ammoniva che «forse non sarebbe la maggiore felicità di unaa repubblica di aver tutti i suoi cittadini filosofanti, e forse ciò nuocerebbe alle arti di prima necessità, perché toglierebbe quella distinzione di professioni e mestieri che costituisce il vero e il bello delle società civili». Come dire che il bello è che ci siano platonicamente il filosofo e il ciabattino per natura. Ma sul versante più avanzato Vincenzio Russo auspicava invece che «le fiamme con vasta ed assoluta distruzione purificassero finalmente la terra dalla luttuosa ignoranza torreggiante su tante migliaia di volumi scritti dal teologo e dal giurista», e proponeva un piano graduale ma rapido di diffusione dell'istruzione. Istituendo due scuole di morale repubblicana e di agricoltura teorico-pratica per cento individui ciascuna, dopo un corso di quattro anni ne sarebbero usciti duecento istruttori per altrettante scuole: così, moltiplicando di quattro in quattro anni, si sarebbe presto avuta una popolazione alfabetizzata.

Di tal genere le proposte teoriche. Quanto alla legislazione concreta, il 24 ottobre 1797, anno i della Repubblica Cisalpina, si elaborava un Piano di pubblica istruzione in nanne della libertà e dell'eguaglianza; e l'anno dopo il Dandolo proponeva scuole primarie anche per le fanciulle, ma quasi scusandosene: «Potrebbe sembrare strano ad alcuni che si propongano in questo momento». Tale era ancora il livello delle coscienze. Ne1798 la Repubblica romana sanciva nella sua Costituzione (art. 293) il diritto dei cittadini a formare istituti d'istruzione. Leggi simili saranno poi approvate nel Regno d'Italia nel 1802 e 1804, e saranno parte del nostro patrimonio storico. Intanto in questa Italia giacobina si tendeva a educare il popolo anche attraverso le «Feste nazionali», che presentavano una grande varietà di giochi e gare fisiche e intellettuali.

Di fronte a tali progetti e iniziative rivoluzionarie, che dalla Francia invadevano l'Italia e tutta Europa, la Chiesa cattolica si irrigidiva sempre più. Pio VII, appena eletto nel 1800, ripeteva nell'enciclica Diu sans contro i rivoluzionari (ma l'ardore della rivoluzione si era spento col Termidoro!) le ingiurie già lanciate da Pio vi contro gli illuministi: «Tentano - diceva - di rovesciare le istituzioni pubbliche e private e di mettere sottosopra tutti i diritti umani e divini, e hanno fatto ogni sforzo per avvelenare e corrompere le tenere anime» (p. 176); ed esortava il clero a controllare l'opera dei maestri: «Scacciate o tenete lontani i lupi rapaci che non risparmiano il gregge degli innocenti agnelli;; e se per caso si sono introdotti in qualche luogo, spingeteli fuori e sterminateli immantinente»; e, per non dimenticare niente, spronava anche a «distruggere completamente, bruciandoli, quei libri nei quali si dà contro la dottrina di Cristo». Ma, nonostante queste paure e minacce, il 25 luglio 1801 la Chiesa cattolica firmava col regime napoleonico un concordato, nel quale si riconosceva la religione cattolica come religione di Stato, mantenendola al centro dell'educazione popolare. Insomma, la rivoluzione non mise sottosopra né i diritti umani e divini né il sistema dell'istruzione.

Col regime napoleonico, le aspettative più avanzate nel campo dell'istruzione cedono il campo a interventi statali significativi ma di carattere moderato: dì fatto si torna più o meno ai progetto Talleyrand. Si proclama che «leggere, scrivere e far di conto sono i bisogni di tutti, e sono anche le sole conoscenze che sia possibile dare mediante un'istruzione diretta e positiva agli abitanti delle città e delle campagne». Dunque, non più di tanto. Ma a questo regime borghese autoritario si devono

anche notevoli iniziative: si ribadisce che «il compito dell'istruzione pub­blica appartiene allo Stato», si reintroducono almeno in linea di principio la gratuità e l'obbligatorietà dell'istruzione elementare, si creano li­cei d'istruzione secondaria e si provvede alla preparazione degli inse­gnanti non solo elementari ma anche medi, creando una Scuola normale superiore (1808), e si pone tutta l'istruzione sotto la guida delle università. In Italia, a Napoli, Giuseppe Bonaparte nel 1,806 proclama gratuità e obbligo, ma due anni dopo Murat cancella la gratuità; e nel 1809, Vin­cenzo Cuoco, già attivo nella rivoluzione giacobina del 1799 repressa ferocemente nel sangue dai Borbone, indirizzerà un suo Rapporto al re Gioacchino Murat per l'organizzazione della pubblica istruzione. Vi sugge­riva, come già il Filangieri e il Galdi, un'istruzione «universale, uniforme e completa», ma continuando a distinguerne «una per tutti, una per mol­ti, una per pochi»: e ribadiva che doveva servire «non per formare del popolo tanti sapienti, ma solo istruirlo tanto quanto basta perché possa trarre profitto dai sapienti» (pp. 5-6). Poi, nel 1811, proporrà un Conser­vatorio d'arti e mestieri come quello già proposto dalla Convenzione. E ancora Galdi pubblicherà i Pensieri sull'educazione pubblica relativamente al Regno delle Due Sicilie. A Pisa nel 1811 si crea una Scuola normale superiore, filiale di quella parigina, nel cui Regolamento si indicano come principali doveri degli alunni «il rispetto per la Religione e l'attaccamento al Sovrano». Nelle Istruzioni per le scuole elementari, pubblicate a Milano nel 1812, si raccomandava: «I maestri instillino nel cuore dei loro scolari l'amore per il Re e per la Patria, l'ubbidienza alle leggi, il rispetto ai Magistrati e la riconoscenza soprattutto che debbono a chi loro l procura una gratuita istruzione e cerca di nobilitare le loro anime». Certo, riconoscenza: l'aveva già detto il Dumarsais.

Non si può dire che fossero concezioni rivoluzionarie: lo spirito della rivoluzione era finito nell'ossequio al re, e l'istruzione continuava a l'essere concepita come una benigna elargizione del potere ai sudditi.

Tipico, ad esempio, il Decreto emanato il 14 marzo 1807 «in occasione del parto della Vice-regina d'Italia», che istituiva quattro Licei Convitti, «con novanta pensioni a spese della Corona e a beneficio della classe men facoltosa dei benemeriti cittadini», e che tutti i letterati del regime si adoperarono a esaltare servilmente. Il Monti dedicò all'evento un inno alle «Gamelie vergini», protettrici delle nozze e del parto: «Da questa cuna espandesi D'alta clemenza un raggio...» (vv. 43-48); e altri servili omaggi dedicarono l'istituto, il Sena­to, il Lamberti, il pittore Bossi, il drammaturgo Rossi: sì che il Foscolo li derise tutti con l'epigramma «Te Deum; Gamelie dee», dove, mostrato come ciascuno avesse dedicato qualcosa, concludeva: «E il pover Ugo, o Dee, quest'epigramma», ovviamente pubblicato postumo.

Ma, fuori dalle iniziative statali, sono di questo tempo due esperien­ze individuali di grande rilievo che, nate in Inghilterra e in Svizzera, ebbero imitazioni in tutta Europa e nel mondo.

La prima fu quella del "mutuo insegnamento", di cui un barlume traluceva già nella proposta di Vincenzio. Russo. Sperimentata dapprima nel 1789 in India dal pastore anglicano Andrew Beli per i figli dei soldati europei della Compagnia inglese delle Indie, fu ripresa in Inghilterra dal quacchero Joseph Lancaster, che nel 1798 aprì una simile scuola per i fanciulli poveri. Diversa l'ispirazione ideale, conformista nell'uno, democratica nell'altro, ma uguale l'ispirazione didattica. Mirando all'istruzione elementare anche delle classi inferiori della società, per renderla possibile nella mancanza di maestri, si affidava ai ragazzi più progrediti la funzione di "monitori" nei riguardi dei novizi, sì da assistere un numero di ragazzi molto maggiore del solito. Ciò comportava un'organizzazione tra militaresca e industriale della vita scolastica. Il maestro, sopra un'alta sedia, vigilava l'intera sala ove si raccoglievano centinaia di ragazzi, assisteva alle ripetizioni dei monitori ed esaminava una o due volte la settimana ogni classe. L'apprendimento del leggere e dello scrivere era simultaneo: i ragazzi leggevano da lavagne affisse al muro recitando in coro, secondo l'antico costume, lettere, sillabe e parole, e scrivevano col dito su una cassetta piena di sabbia. Il tutto su comandi impartiti o con la mano o con segni o con mezzi "telegrafici" dal maestro, un po' come nelle Scuole cristiane del de La Salle, secondo prescrizioni minuziose: «Preparatevi! Tutti i ragazzi posano l'indice destro sull'orlo della ta­vola, guardano la tavoletta, e la loro sinistra resta appoggiata al ginocchio. II monitore mostra una lettera con la bacchetta, p. es. A, e dice: fate A ! I ragazzi appoggiano il braccio sinistro sulla tavola e con l'indice della diritta segnano la lettera» (Giuseppe Haruel, Insegnamento mutuo, 1819, p. 39). Proibite le punizioni corporali con le verghe, i premi e le punizioni consistevano nel passare da un posto arre­trato a uno avanzato, o viceversa, nelle file dei banchi.

L'altro esempio, precedente e in parte contemporaneo all'esperienza rivoluzionaria, fu quello di Enrico Pestalozzi, che nella Svizzera contesa tra gli eserciti francesi e austro-russi ai tempi di Napoleone si dedicò ad assistere e istruire i ragazzi vittime delle guerre. Già onorato con la cittadinanza francese nel 1792, e poi fautore della Repubblica Elvetica, fu osteggiato dai conservatori. Usando talvolta il mutuo insegnamento «come semplice mezzo sussidiario» ma rifacendosi essenzialmente a Rousseau, riconosceva «le immutabili leggi della leggi della nostra natura» (Madre e figlio, 31. dic. 1818), rinnegava ogni azione repressiva e ogni punizione, che «non farebbe che aggravare il male» (12 dic. 1818), richiamandosi all'amor materno e a un rapporto fondato sulla bontà (3 att. 1818). Riprendendo motivi della pedagogia umanistica, delle satire del pedante, dell'elogio della pazzia di Erasmo, affermava che «Fra tutti i tiranni i più feroci sono i più piccoli, e fra i più piccoli i più terribili sono i tiranni della scuola». Di là dai fin troppo deboli schemi filosofici, ebbe intuizioni feconde tendendo a tener vivo lo stimolo ad apprendere «operando sulla mente del fan­ciullo con elementi presi dalla realtà» (17 apr. 1819). E accanto a que­sta didattica puerocentrica e concreta c'era l'interesse per la ginnastica, « la cui utilità per il corpo è grande e innegabile, ma è altrettanto prezioso il guadagno morale che se ne ricava» (18 feb. 1819); e altrettanto diceva della musica, «per l'efficacia che ha nel far nascere e ali­mentare i più elevati sentimenti di cui l'uomo sia capace» (ivi).

Un'educazione, dunque, del corpo e dello spirito, perché «tutte le facoltà della natura umana debbono venir trattate con la medesima attenzione,.., in guisa che nessuna predomini a spesa delle altre» (7 e 24 ott. 1818). In questo quadro di didattica attiva, attenta alle esigenze individuali del fanciullo, il fine era di «preparare l'essere umano all'uso libero e integrale di tutte le facoltà... per diventa società» (2S aprile 1819).

Era dunque un democratico che, come si rivolgeva al fanciullo, così si rivolgeva ai ceti popolari, proclamando «contro i partigiani dell'oppressione, dell' oscurantismo, del pregiudizio i legittimi diritti di tutte le classi sociali alla diffusione universale del sapere» (17 aprile e 24 febbraio 1819). Ma, più tardi, nel Canto del cigno, esprimerà anche lui i suoi timori sui rischi sociali della diffusione dell'istruzione, perché, diceva, «tale educazione farebbe germogliare il seme di una disposizione d'animo che finirebbe per rendergli per sua sventura insopportabili i limiti dei proprio ceto e delle proprie condizioni».

 

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