Indicazioni Nazionali per i Piani di studio personalizzati

Scuola secondaria di I° grado

Una lettura critica

27 febbraio 2003 – Sala Kirner – Roma

Relazione di Simonetta FASOLI

Ufficio Nazionale Presidenza Proteo Fare Sapere

a quale idea di scuola, di alunno (apprendimento), di insegnante

(insegnamento) rinviano

La prima, preliminare questione riguarda l’unitarietà della formazione di base. Si può ancora parlare di un ciclo unitario di base, di quella unitarietà articolata che era una delle permesse forti della legge 30/2000 (riordino dei cicli)?

Istanza innovativa ma anche sistemazione di segmenti formativi che, attraverso successivi interventi di legiferazione, si erano sensibilmente avvicinati, fino a rendere la continuità educativa non più solo una pregevole dichiarazione di principio ma una strategia praticabile.

L’unitarietà richiamava poi l’altra idea regolativi della gradualità: quel “graduale passaggio dagli ambiti alle discipline” di cui parlava la legge 30 aveva una precisa legittimazione pedagogica nel processo di differenziazione progressiva dalla globalità dell’esperienza alla sua sistemazione/traduzione nei codici simbolici dei saperi formalizzati (semmai, si poteva obiettare a questa impostazione che non si tratta di un percorso lineare, a senso unico, ma di un movimento che dall’esperienza muove alla mediazione simbolica e viceversa, a prescindere dalla tappa dell’età evolutiva).

L’unitarietà rimane nell’impianto, nella strumentazione concettuale e lessicale utilizzata dagli estensori delle indicazioni per i vari segmenti della scuola di base, comprendendo in essa anche la scuola dell’infanzia Ma i contenuti culturali (l’idea di alunno, di conoscenza, di rapporto con le discipline) vanno verso l’accentuazione della specificità della Scuola Media, identificata nel suo carattere di scuola secondaria.

Ne consegue che: i richiami alla continuità educativa assumono un significato più esortativo che strutturale, confermando più che attenuando il confinamento blindato della scuola media nella difesa a oltranza di una pretesa “identità” che sembra piuttosto la risposta demagogica a fantasie di elementarizzazione agitate dalla prospettiva del settennio unitario della legge 30.

Intendiamoci: le preoccupazioni che avevano attraversato il mondo della scuola media – i docenti anzitutto – nella prospettiva del riordino dei cicli, non sono da liquidare sommariamente come espressione di difesa corporativa di un segmento di scuola. E la compressione dei tempi del percorso elementare/media, da 8 a 7 anni, poneva problemi di carattere pedagogico, professionale che non potevano essere ridotti (a mio avviso con un eccesso di semplificazione) alla gestione organizzativa della cosiddetta “onda anomala”.

Resta però che l’intervento ordinamentale che metteva capo ad un unico percorso “unitario ed articolato” era un importante contenitore per esperienze professionali di “meticciato” culturale, didattico, organizzativo. Supportato opportunamente con interventi formativi,  diffusione e generalizzazione di buone pratiche, avrebbe nel tempo contribuito a rimuovere le più rilevanti cause di dispersione e insuccesso scolastico insite nel sistema stesso. Del resto le esperienze degli istituti comprensivi (che, ricordiamolo, costituiscono la forma prevalente delle istituzioni scolastiche della scuola di base) stanno a testimoniare questa possibilità ben oltre le più raffinate petizioni di principio.

Il documento ministeriale, invece, fa la scelta di sottolineare l’identità della scuola media in termini di rottura (o quanto meno di forte discontinuità) rispetto al segmento formativo precedente.

E lo fa su diversi piani (epistemologico, psico-pedagogico, organizzativo) tutti miranti a fondarne la natura di istruzione “secondaria”. Con qualche argomentazione, a parer mio, forzata.

Il fulcro del ragionamento sta nella supposta emancipazione da una visione ingenuamente “immediata” tra realtà e rappresentazioni della consapevolezza della loro distanza in termini di “scoperta del modello”.

Non voglio entrare nel merito della giustificazione delle teorie pedagogiche sottese al ragionamento. Mi limito ad osservare che la nostra esperienza di gente di scuola ci suggerisce come la preadolescenza sia caratterizzata da una compresenza di elementi dell’uno e dell’altro modo di conoscere e come l’emergenza di un approccio modellizzato (altrimenti definito come processo di astrazione) sia spesso da collocarsi al termine del triennio, e non in egual misura di consapevolezza e di padronanza concettuale.

Reciprocamente, sembra discutibile l’immagine di un bambino tutto inscritto nel realismo ingenuo, quando sappiamo che forme molto precoci di problematizzazione, dunque di distanziamento dall’oggetto, sono presenti fin dalla scuola dell’infanzia e via via si affermano negli anni della scuola elementare (quando nell’approccio ai vari ambiti disciplinari emergono modalità spesso notevolmente evolute di pensiero ipoteticodeduttivo).

L’identità della scuola media potrebbe piuttosto essere cercata proprio nelle pieghe di questa compresenza di modi conoscitivi immediati, da un lato, vicini piuttosto alla percezione globale del sé e del mondo, e dall’altro di apprendimento con caratteri fortemente simbolizzati, che fanno esplicito riferimento a corpi disciplinari.

Tale caratteristica permette quella flessibilità di metodologie e strategie didattiche che utilizza il passaggio dal “realismo ingenuo” ai processi di astrazione non in chiave di selezione ma di riconoscimento di diversi stili cognitivi e , in definitiva, di promozione sociale.

Quanto agli aspetti disciplinari che connotano la scuola media, anche in questo caso bisogna intendersi: l’unitarietà della scuola di base non va appiattita su uno schematismo di comodo che veda contrapposte, da un lato, la scuola elementare predisciplinare o al massimo para-disciplinare (negli ambiti) e la scuola media disciplinarizzata. Bisogna distinguere il punto di vista dei docenti da quello della mediazione didattica nei confronti degli alunni. Lo statuto epistemologico delle discipline non smette di esistere e far valere le sue istanze a seconda dell’età dei discenti: esso è e rimane, comunque, il punto di riferimento per qualsiasi azione di

insegnamento/apprendimento. Ciò che si modifica, nel passaggio graduale dell’età evolutiva, è la modalità della mediazione didattica, che deve tenere conto del rapporto con l’esperienza e dei processi astrattivi possibili.

Fatta questa precisazione, va con forza ribadito che nella Scuola di Base, sia per le caratteristiche evolutive degli alunni sia non di meno per le finalità istituzionali, le discipline, comunque organizzate, restano pretesti formativi: la finalità formativa, in altri termini, orienta, qualifica e precede l’apprendimento in termini di saperi dichiarativi e strumentali.

Del resto, questa impostazione ritorna nella sezione degli obiettivi formativi generali, in cui si riprendono temi e filoni della tradizione e dei testi fondativi (“scuola che colloca nel mondo” – “Scuola orientativa”) con qualche aggiornamento degno di nota: il rapporto tra le conoscenze, le abilità e le competenze personali (una nozione di competenza che sarà sviluppata nella parte relativa agli obiettivi specifici di apprendimento) e soprattutto il ruolo riconosciuto ai genitori, e “più in generale la famiglia” che “devono essere coinvolti nella programmazione e nella verifica dei progetti educativi e didattici”. Si ribadisce qui uno dei tratti culturali più significativi che accomunano le indicazioni nazionali dei vari percorsi formativi. Il riferimento alla famiglia ha una connotazione di panfamilismo di tutta evidenza.

E’ questa la risposta alla crisi del modello partecipativo nella scuola dei decreti delegati degli anni settanta? Un nodo cruciale che suscita grande perplessità, soprattutto se messo in relazione con le modalità di costruzione del Piano di Studio personalizzato, in cui torna a campeggiare la funzione della famiglia (come vedremo). Si noti il linguaggio:

“ in particolare i genitori, e più in generale la famiglia, a cui competono in modo primario e originario le responsabilità, anche per quanto concerne l’educazione all’affettività e alla sessualità (secondo il patrimonio dei propri valori umani e spirituali) devono essere coinvolti nella programmazione e nella verifica dei progetti educativi e didattici posti in essere dalla scuola” (paragrafo Scuola dell’identità).

La questione è, al solito, nel significato da attribuire alle parole: Cosa si intende per “essere coinvolti” nella programmazione? Quali forme partecipative sono sottese, con quale mandato istituzionale, con quali vincoli? L’uso di una terminologia specificamente professionale fa pensare ad una facoltà di negoziazione e di controllo che va oltre il campo dell’educativo: I genitori si apprestano a trasformarsi da interlocutori di un progetto educativo di carattere necessariamente generale a committenti/controllori della traduzione didattica del progetto stesso? Quale dinamica istituzionale si prefigura? Quali rapporti di forza?

Entriamo così nel “cuore” stesso del documento, dopo la parte che possiamo assimilare ad una Premessa con riguardo alla cornice pedagogico-culturale delle Indicazioni. Si tratta di capire come il modello (o i modelli…) culturale si espliciti sotto forma di immagini di funzionamento, prima ancora che di modelli organizzativo-gestionali; più esattamente, di intercettare le modificazioni (a mio avviso, sostanziali) introdotte, anche nei casi in cui sono mantenuti strumenti concettuali e lessicali adottati nel sistema normativo attuale. Infatti, se dovessimo rappresentare per schemi la parte del documento che ora ci interessa, potremmo fare questa operazione (n.d.r. eventuale “lucido”) Cosa ci suggerisce questo schema? Alcune conferme, alcune significative, e decisive, “assenze”.

Restano gli obiettivi specifici di apprendimento cui fa riferimento il D.P.R. 275/99 (Regolamento dell’autonomia); si introduce un’accezione di “competenza” circostanziata (e, a mio parere, riduttiva) rispetto all’elaborazione che ha accompagnato la riforma berlingueriana: in questo caso, sembra aver a che fare piuttosto con l’identità che con l’ordine dei saperi dichiarativi e procedurali. Viene precisato il valore e il limite di prescrittività degli obiettivi specifici di apprendimento ed enfatizzata la funzione di mediazione professionale/didattica esercitata dalla scuola autonoma, la quale consiste essenzialmente nell’elaborazione di tali obiettivi in termini di obiettivi formativi, a loro volta espressi in competenze individuali.

Lo strumento di questo passaggio è indicato nelle “Unità di apprendimento” (con qualche oscillazione concettuale, per cui sono intese come strumento per il raggiungimento degli obiettivi formativi ma al tempo stesso son la risultante di diversi obiettivi formativi. L’esito del processo è il Piano di studio personalizzato, vera chiave di volta del sistema.

Se raffrontiamo questa dinamica con l’attuale modalità di funzionamento e soprattutto con il patrimonio di pratiche professionali accumulato in decenni di lavoro sul campo nella Scuola media, emergono seri motivi di riflessione e di netto dissenso.

Le “architravi” del sistema, soprattutto a partire dagli interventi normativi degli Anni Settanta (decisiva, al riguardo, la L:517/77, che tra l’altro investiva l’intero segmento della scuola dell’obbligo) sono costituite:

A) dalla programmazione educativo-didattica, che traduce i Programmi in percorsi/strategie volti a:

q       contestualizzare

q       individualizzare

q       integrare

B) dalla collegialità che caratterizza l’attività programmatoria; non si tratta, in questo caso, di un requisito giuridico-formale, ma della forma professionale di lavoro che garantisce

1) coerenza di interventi

2) unitarietà del processo di apprendimento

3) pari dignità per le discipline e le attività che concorrono in egual misura, a prescindere dal “peso” in termini orari, alla realizzazione della mediazione didattica

C) dall’individualizzazione come principio regolatore e ragion d’essere stessa dell’azione programmatoria. I percorsi di promozione delle eccellenze, di compensazione dello0 svantaggio socioculturale, di valorizzazione delle diversità comunque connotate, traggono fondamento dal medesimo principio.

Ora, a ben guardare, le Indicazioni nazionali sembrano destrutturate, o comunque stravolgere, tutti questi elementi portanti che hanno costituito l’asse pedagogico-culturale della Scuola Media, e dell’intera Scuola dell’obbligo (e qui davvero sarebbe il caso di fare un richiamo forte alle istanze dell’identità…). Infatti:

a) la programmazione riduce il campo della sua portata, diventando trasposizione degli obiettivi specifici di apprendimento in obiettivi formativi relativi alle competenze del singolo;

b) la collegialità scompare nel testo perfino come indizio, aprendo la questione complessa della titolarità dell’operazione, dal momento che il prodotto finale (Piano di studio personalizzato) rimanda ad altri soggetti (docente tutor, famiglie, e, bontà loro!, preadolescenti).

Sembra che ci troviamo di fronte ad una procedura di tipo negoziale-privatistico, che fa agio sul team dei docenti, ponendo gravi problemi di natura pedagogica, professionale, culturale.

Si profila una gerarchizzazione spinta, con l’emergere di una figura funzionale “unica” (altro che “prevalente”!) che gestisce le fasi progettuali, che coordina, che detiene gli spazi del rapporto con le famiglie? Ciò al di fuori di qualunque contesto organizzato (classe, consigli di classe, dipartimenti). E’ lecito domandarsi che ne è degli altri docenti: in che senso restano, se restano, titolari dell’azione educativa, della mediazione didattica? Siamo forse di fronte ad una divisione del lavoro che entra nel nucleo stesso della professionalità docente, separando in funzioni distinte ciò che appartiene in modo inscindibile alla sua natura: elaborare – progettare – attuare.

c) il valore fondante dell’individualizzazione (la “scuola di tutti e di ciascuno” di don Milani) si deforma nel criterio della personalizzazione (la scuola di ognuno, nel senso di ogni singolo irrelato). Una dinamica istituzionale che rischia di sancire la trasformazione delle scuole autonome in cui tanti alunni-individui, tanti docenti-negoziatori, tante famiglie-monadi sociali intrattengono rapporti di natura patrizia, che il sistema-istituzione legittima e ratifica.

Scompare qualunque idea di scuola come laboratorio sociale, qualunque riferimento al contesto educativo che orienta, sostiene e, in linea valoriale, precede lo sviluppo dei singoli. Si capisce come, in questa prospettiva culturale, il richiamo ai valori della relazionalità e della socialità solidale non possa che essere un fervorino moralistico e un appello ai buoni sentimenti: come in effetti accade in più passaggi del documento.

Un’istituzione, dunque, che è la risultante della somma di singoli (alunni, docenti, famiglie) non il luogo di costruzione di progetti compatibili. Quella differenziazione dei percorsi, che era il motivo ispiratore del legislatore nella L.:517/77, agita come strumento di compensazione dello svantaggio, coerente nei fatti e non solo a parole con l’articolo 3 della Costituzione (riesumato nel testo delle Indicazioni), volta a garantire uguaglianza di opportunità ed equivalenza di esiti, viene piegata ad una funzione di legittimazione preordinata di divaricazione degli esiti.

Alla collocazione in termini classificatori delle discipline, che coinvolge anche le attività laboratoriali (una sorta di “materiale di risulta” destinato alle professionalità di secondo ordine, improntato ad un’operatività da bravi esecutori…) fa da specchio (come del resto è accaduto in un passato che credevamo archiviato) la conferma delle gerarchie sociali, di cui la canalizzazione precoce che passa per via ordinamentale è solo l’espressione finale e più eclatante.

Il carattere selettivo del percorso formativo, un vero e proprio smantellamento dell’impianto e della mission della Scuola Media unica nata nel 1962, trova ulteriore conferma e strumenti operativi nella scansione stessa del triennio, articolato (a differenza di quanto facevano prevedere le ipotesi del documento Bertagna) in un biennio e in un monoennio con finalità spiccatamente orientativa. Si introduce una cesura interna al percorso, malamente e ambiguamente compensata dalla valutazione per l’accesso o meno alla classe successiva, collocata solo alla fine del primo biennio (come sto per argomentare);

la natura orientante della Scuola Media è una delle connotazioni “forti” già nella Premessa e nei Programmi del ’79: si può dire che ha tratti “strutturali” in tutto il triennio, poiché tutto l’impianto disciplinare, didattico mira a creare le condizioni per la conoscenza di sé, per operare una scelta insieme realistica e non rinunciataria. Un terzo anno “orientativo” lascia trasparire, di fatto, pratiche di canalizzazione verso il sistema dei licei o della formazione professionale, rese ancora più efficaci attraverso gli strumenti del Piano di studio personalizzato, del Portfolio, della procedura stessa di valutazione.

Ci sono almeno tre aspetti del sistema valutativo prefigurato che suscitano particolari preoccupazioni: l’introduzione di un meccanismo di contabilità nei debiti formativi che vanifica nei fatti la discrezionalità del consiglio di classe rispetto alle decisioni finali, discrezionalità di cui deve essere fatto ovviamente un uso responsabile, ma che è imprescindibile dall’impianto stesso di una Scuola di base e dalle sue finalità. Curiosa contraddizione, quella in cui sembrano essere caduti gli estensori del documento: dopo aver in più passaggi sottolineato la natura “olistica” del processo formativo, l’istanza dell’interezza dei soggetti in crescita, si riscoprono una vocazione “contabile” e una visione frammentata degli apprendimenti disciplinari, che non avremmo certo potuto sospettare!…

Un secondo elemento, non meno discutibile, riguarda quell’accenno all’inserimento, tra i possibile “debiti”, del “comportamento”: dato inquietante, del resto già anticipato nel documento Bertagna. Siamo di fronte ad una rivincita delle componentigiustizialiste” che non sono mai definitivamente andate in ritirata nel mondo della scuola? Non è difficile immaginare cosa può diventare questo strumento, applicato senza il correttivo del buon senso e della relazionalità educativa efficace, nei confronti dei tanti preadolescenti che presentano problemi socioaffettivi e che comunque non stanno per le più svariate ragioni nei canoni delle regole comportamentali…

Infine, l’introduzione della “prova nazionale” nell’ambito degli esami di stato che concludono il triennio, affidata sia nella stesura che nella correzione al Servizio Nazionale di Valutazione. Poiché i risultati avranno incidenza anche ai fini della parziale determinazione della valutazione finale (come del resto è nella logica stessa dell’introduzione) c’è da chiedersi quanto questo dispositivo agisca in funzione ulteriormente selettiva, snaturando il senso stesso di un accertamento che conclude un percorso formativo di base. E’ il “pedaggio” che la Scuola Media paga (ma lo scontano, in verità, ancora una volta, i ragazzi e le ragazze con una scolarità più debole…) alla sua secondarizzazione, che in questo caso pretende di avvicinarla all’esame di stato della scuola superiore?

Non può mancare, in questa disamina che avvio a concludere, un riferimento al temposcuola,

così come appare delineato nelle Indicazioni, con alcuni scarni elementi. Essendo la variabile-tempo fondamentale in pedagogia e in didattica, oltre che essenziale per determinare la struttura disciplinare e le risorse di organico docente, questi aspetti meritano adeguata attenzione.

In sintesi, possiamo notare, come è nell’evidenza dei numeri, che il tempo scuola viene complessivamente ridimensionato; si prevede infatti una duplice articolazione:

A) Un orario obbligatorio annuale pari a 900 ore (27 ore settimanali)

B) Un’offerta aggiuntiva messa a disposizione dalla scuola autonoma fino a 200 ore (fino a 33 ore settimanali)

Siamo ad una perdita secca di tempo-scuola, già nella quota obbligatoria, che si estende ulteriormente, prevedendo un “tetto” di 33 ore , che viene lasciato peraltro alla decisione delle singole istituzioni, non si sa fino a che punto vincolate dalla contrattualità strutturale con le famiglie, oltre che da una serie di variabili di contesto, di storia, di professionalità.

Come poi queste ore possano partecipare “alla definizione dell’organico di istituto” (così nel testo), stante la natura instabile dell’offerta aggiuntiva appena sottolineata, è questione aperta, che rimandiamo ai nostri “tecnici” delle Organizzazioni Sindacali…

A questa duplice articolazione, si aggiunge un ulteriore dato, che mi sembra piuttosto ambiguo, per come è presentato nel documento: si afferma, infatti, testualmente che “ogni studente è comunque obbligato a frequentare le lezioni per non meno di 825 ore annue”. Ci sono su questo punto interpretazioni di tipo “giuridico-formale” secondo cui lo studente che, a consuntivo di anno scolastico, non abbia raggiunto la “soglia” indicata non si vede convalidato l’anno scolastico. Personalmente , ho qualche dubbio su questo tipo di interpretazione, alla luce di quanto viene subito dopo precisato “sentito il tutor e l’équipe dei docenti, in accordo con la famiglia, possono far valere a questo scopo la frequenza dell’offerta formativa sia obbligatoria sia aggiuntiva;(…).”E’ una procedura che fa pensare, più che a un consuntivo, ad una previsione che fa parte integrante del Piano di studio personalizzato. In questo caso, avremmo una terza opzione, che non sta dalla parte della scuola, ma dalla parte dello studente e che, di fatto, introduce un minino di 25 ore settimanali (ritorna un’ipotesi del documento Bertagna) con l’aggravante che a costituire questo monte-ore possono concorrere interamente le 200 ore aggiuntive.

Dico “aggravante” perché immagino, senza troppi sforzi, che uno studente drop-out, o comunque socialmente culturalmente debole, per di più con una famiglia alle spalle connotata dallo scarso interesse per la scuola e dunque da uno scarso “potere contrattuale”, può uscire dal percorso della Scuola media con un curricolo scolastico cui hanno concorso 19 ore di attività disciplinari settimanali e 6 ore settimanali di laboratori “preprofessionalizzanti”. Con buona pace della Scuola Media unica, immaginata dai legislatori del 1962 e soprattutto degli anni Settanta!

(dal sito www.cgilscuola.it)