| LEGAMBIENTE 
          SCUOLA E FORMAZIONE  
 Osservazioni 
          sulle INDICAZIONI NAZIONALI PER I PIANI DI STUDIO PERSONALIZZATI
 PREMESSAIn premessa ci teniamo a sottolineare che i 
          temi posti dal documento ministeriale “Indicazioni nazionali per i Piani 
          di studio personalizzati” riguardano questioni molto rilevanti per il 
          futuro del sistema scolastico italiano, che avrebbero meritato un ampio 
          lavoro di discussione e approfondimento per confrontarsi con le ragioni 
          degli altri e giungere a livelli più maturi e più condivisi di elaborazione. 
          Ci sembra perciò che la procedura proposta, in base a cui ci si chiede solo un pronunciamento generale 
          sul documento, non possa rispondere alla delicatezza del percorso avviato.
 Tenuto conto, quindi, di quanto sopra detto e nella speranza di fare 
          cosa utile, abbiamo deciso di presentare alcune osservazioni sugli aspetti 
          che ci sembrano essere i più rilevanti.
 Il testo che segue va quindi assunto come una sorta di promemoria sintetico, 
          scontando per questa via gli inevitabili schematismi e la parziale superficialità 
          dell’argomentazione, augurandoci che sia possibile nell’immediato futuro, 
          e con quei tempi più distesi che l’importanza 
          dell’argomento richiederebbe, avviare un confronto approfondito e serio.
 TRE 
          QUESTIONILe “Indicazioni nazionali per i Piani di studio personalizzati” nella 
          Scuola dell’Infanzia, nella
 Scuola Primaria e nella Scuola Secondaria di 1° grado a nostro avviso 
          pongono tre problemi fondamentali:
 1. la sostituzione della logica curricolare con quella dei Piani di studio
 2. il ruolo delle discipline.
 3. l’impianto organizzativo
 A queste tre questioni, si aggiungono, anche per la particolare e approfondita 
          esperienza che abbiamo acquisito sul campo, alcune Osservazioni in merito 
          all’ampio settore della Convivenza Civile.
  
          1. Logica curricolare e Piani di studioDalla lettura delle Indicazioni nazionali emerge, dal nostro punto di 
          vista, con evidenza che non ci troviamo di 
          fronte ad una semplice modificazione terminologica, ma ad un vero e 
          proprio cambiamento di rotta rispetto al DPR 275/99. La proposta, che 
          sostanzia i Piani di Studio, interviene infatti 
          su due aspetti molto rilevanti:
 
          la 
            responsabilità (livello di)la 
            prescrittività (livello di) 1.1 
          Partiamo dalla responsabilità. Con il termine “Piani di studio” si enfatizza 
          molto il ruolodello studente come individuo che, attraverso l’intervento della propria 
          famiglia, determina e pianifica il proprio percorso di 
          apprendimento ed educazione. Nelle Raccomandazioni, che accompagnavano 
          la prima versione delle Indicazioni nazionali, si affermava che “resta 
          la responsabilità progettuale della scuola e dei docenti che devono 
          offrire percorsi formativi, ma risulta ancora 
          più netto di prima il principio della personale responsabilità educativa 
          dei ragazzi, dei genitori e del territorio nello sceglierli e nel percorrerli 
          ed acquisirli”. Non ci convince la distinzione netta di ruolo tra una 
          scuola che offre opportunità e la famiglia che sceglie. L’enfasi posta 
          sulla personalizzazione riduce la responsabilità 
          della scuola e dei docenti, che si limitano ad offrire una certa varietà 
          di prodotti formativi con il pericolo di inseguire le richieste personalistiche 
          che arrivano da studenti e famiglie, perdendo di vista il proprio ruolo 
          e funzione. Che fare nei casi in cui le scelte “imposte” dalle famiglie 
          fossero non coerenti con quelle didattico educative 
          pedagogiche della scuola? Come individuare il “limite invalicabile”? 
          Lasciare ai ragazzi e ai genitori la responsabilità di scegliere ha 
          il sapore dell’abdicazione e limita la libertà di 
          insegnamento.
 Di fatto si sposta la potestà decisionale, e quindi la responsabilità, 
          dall’organo professionale (costituito a seconda dei 
          casi dal Gruppo di insegnanti che opera con l’allievo o dal Collegio 
          dei docenti fino ad arrivare all’intera comunità scolastica) alla famiglia 
          che contratta con uno degli insegnanti, il tutor, 
          il percorso ottimale per il proprio figlio.
 La logica curricolare prevede invece che sia 
          la scuola, attraverso i suoi organi professionali, ad elaborare, progettare, 
          organizzare e gestire un progetto culturale coerente 
          con le indicazioni nazionali e capace di interpretare e mediare 
          le esigenze locali (che non si esauriscono in quelle rappresentate dai 
          genitori). All’interno di questa struttura unitaria, coerente e condivisa 
          trovano spazio e possibilità di realizzarsi al meglio i percorsi personalizzati.
 Nella logica curricolare la responsabilità 
          rimane saldamente in mano agli organi professionali preposti, nella 
          logica qui delineata il baricentro si sposta su una famiglia che contratta 
          con il tutor.
 E’ come se un paziente andasse dal proprio medico e “contrattasse” la 
          diagnosi e la terapia; paradossalmente nel sistema sanitario questo 
          è avvenuto in alcuni casi, ma solo quando si è trasformata la professione 
          medica in una attività impiegatizia e burocratica 
          - il “medico della mutua”. Non vorremmo che questo fosse l’esito anche 
          per gli insegnanti, trasformati da professionisti dell’apprendimento 
          a esecutori di disegni e volontà espressi da 
          “utenti / clienti”, ovvero le famiglie, che non possono che essere degli 
          “incompetenti” sul piano tecnico – professionale dell’apprendimento 
          (in questo ambito non è proprio vero che “il cliente ha sempre ragione”). 
          Se poi questa scelta, proposta dal documento, allude alla valutazione 
          che tale “incompetenza” è diffusa nel corpo insegnante, allora il limite 
          della categoria andrebbe esplicitamente denunciato ed andrebbe affrontato 
          con ben altri strumenti (primo fra tutti quello di una formazione efficace).
 Ciò che ci preoccupa è che questo modo di coinvolgere le famiglie, con 
          un sostanziale sbilanciamento a loro favore nella responsabilità delle 
          scelte, viene assunto come principio
 ideologico, di per sé positivo, e non si valuta con attenzione quali 
          effetti possa determinare in tutti quei casi (e non sono pochi) in cui 
          le famiglie non sono in grado, per difficoltà sociali, culturali, o 
          semplicemente per “disattenzione”, di compiere una scelta “libera” e 
          capace di garantire la vocazione del bambino e del ragazzo.
 Tale logica, che ispira i Piani di studio personalizzati, è confermata 
          ed ulteriormente strutturata nella proposta 
          del portfolio, con il rischio, per altro, di depotenziare 
          uno strumento che, se ben governato, potrebbe essere utile per migliorare 
          i processi di insegnamento / apprendimento.
 Secondo noi il portfolio è un ottimo strumento 
          di lavoro, in quanto biografia educativa e 
          scolastica che sorregge e potenzia la continuità, ed ha senso se è stimolo 
          e condizione per un’attenta opera di ri-progettazione 
          per il singolo allievo, fatta dall’équipe professionale che collegialmente 
          riesce meglio a bilanciare gli errori di valutazione del singolo.
 Nelle Indicazioni nazionali invece si confonde la collaborazione, il 
          coinvolgimento e la partecipazione delle famiglie nella diagnosi con 
          l’assunzione di responsabilità, che non può non essere dell’insegnante, 
          come individuo e come organo professionale collettivo. La responsabilità 
          professionale non è mai negoziabile; il medico non negozia la cura con 
          il malato, la concorda, se è il caso, ma, se rimane differenza di 
          opinioni, alla fine è il professionista che si assume la responsabilità 
          di prendere la decisione. Senza considerare che la competenza su come 
          si compila il portfolio e quindi la possibilità di fare scelte ragionate 
          per la sua compilazione è comunque dell’insegnante.
 In ultima analisi, per quanto attiene ai rapporti di responsabilità, 
          ci sembra che nelle Indicazioni Nazionali si sottovaluti molto un fatto 
          di grande rilievo: tra le funzioni educative più importanti 
          della scuola c’è quella di accompagnare la crescita dei bambini e dei 
          ragazzi anche attraverso una presa di distanze dalla famiglia. Per svolgere 
          al meglio questo compito, la scuola deve “difendersi”, ovvero non può 
          rimanere esposta alle sempre più numerose perturbazioni che anche alla 
          scuola arrivano dalla fragilità (psicologica, culturale, di ruolo) delle 
          persone che compongono la famiglia e che ne determinano la drammatica 
          crisi dei nostri giorni.
 1.2 Il secondo aspetto critico riguarda la prescrittività 
          delle Indicazioni. Il documento si
 “lascia andare” ad una puntigliosa elencazione di conoscenze e abilità, 
          disciplina per disciplina, che non lascia margini di manovra, se non 
          gli stessi previsti dai programmi di una volta, tanto è vero che in 
          più punti, soprattutto quando si parla delle Unità di 
          Apprendimento, si dice che compito delle scuole è organizzare, 
          programmare e tradurre in didattica le Indicazioni (“è compito esclusivo 
          di ogni scuola autonoma e dei docenti, infatti, nel concreto della propria 
          storia e del proprio territorio, assumersi la libertà di mediare, interpretare, 
          ordinare, distribuire ed organizzare gli obiettivi specifici di apprendimento 
          negli obiettivi formativi, nei contenuti, nei metodi e nelle verifiche 
          delle Unità di Apprendimento” - p. 5 Indicazioni nazionali – Scuola 
          primaria).
 Il compito degli insegnanti viene limitato alla traduzione della “mappa 
          culturale, semantica e sintattica, che essi devono padroneggiare anche 
          nei dettagli” in “azione educativa ed organizzazione didattica coerente 
          ed efficace” (p. 4 Indicazioni nazionali – Scuola primaria), stando 
          attenti che “l’ordine epistemologico di presentazione delle conoscenze 
          e delle abilità che costituiscono gli obiettivi specifici di apprendimento 
          non va confuso con il loro ordine di svolgimento psicologico e didattico 
          con gli allievi”. Legittimamente ci chiediamo: cosa c’è di diverso in 
          tutto ciò, al di là delle formule linguistiche 
          adottate, spesso inutilmente farraginose, da quanto da sempre fanno 
          e hanno fatto gli insegnanti nell’era dei programmi ministeriali? E cosa c’entra tutto ciò con l’autonomia scolastica così 
          come disegnata dal DPR 275/99? A noi sembra che tutto ciò non abbia 
          nulla a che fare con il compito di mediazione culturale che l’autonomia 
          affida agli istituti scolastici, che è anche 
          opera di elaborazione e progettazione culturale, e non solo di “traduzione” 
          nel tecnicismo didattico.
 Inoltre ci sembra che gli elenchi di conoscenze e abilità prescritti 
          dalle Indicazioni siano molto ampi, e ciò lascia non poche perplessità 
          sulla possibilità reale, da parte delle scuole, di utilizzare la quota 
          a loro disposizione per fare un progetto organico di scuola che non 
          si limiti a tradurre in didattica le indicazioni. 
          Tutto concorre a delegittimare il ruolo culturale, progettuale e pedagogico 
          delle scuole: non c’è mai un riferimento al curricolo di scuola, ovvero 
          alla progettazione culturale e pedagogica che è responsabilità specifica 
          del Collegio. Le scelte progettuali e di percorso sembrano essere solo 
          appannaggio delle famiglie, che si incontrano 
          con un insegnante, il tutor. Il cambiamento è evidente, si passa da un organismo 
          professionale collettivo, che ha capacità e potestà progettuale, ad 
          una negoziazione tra singoli individui. D’altra parte questa scelta, 
          per quanto, a nostro modo di vedere, nociva ed antistorica, è coerente 
          con il quadro complessivo della riforma, così come determinato dalla 
          legge 53/03, dove la quota a disposizione delle scuole, indispensabile 
          per progettare il curricolo di scuola (vera anima dell’autonomia scolastica), 
          è stata sostituita dalla quota a disposizione delle Regioni (ma su questo 
          abbiamo già avuto modo, in precedenti “promemoria” di presentare le 
          nostre argomentazioni critiche).
 Insomma dalla logica degli Obiettivi Specifici di 
          Apprendimento ciò che viene penalizzato è
 l’unitarietà della progettazione realizzata dalla scuola. Non è quindi 
          un caso che in nessun punto mai si parli di 
          ricerca educativa, che, evidentemente, non è riconosciuta come grande 
          fattore di innovazione e di “capacità evolutiva” del sistema scolastico. 
          Eppure, senza di essa, nessuna modificazione 
          scolastica innovativa si può realizzare – e certo la ricerca educativa 
          ha bisogno di tempi riconosciuti, di risorse dedicate, di modalità di 
          lavoro collegiale legittimate, di assunzione di responsabilità condivisa 
          e diffusa.
 L’unica responsabilità professionale prevista è quella di tradurre in 
          didattica le Indicazioni, attenti a garantire alle famiglie la possibilità 
          di scegliere tra più opzioni; un po’ poco per 
          parlare di autonomia scolastica ma sufficiente per dire che si torna 
          alla logica dei programmi ministeriali.
  
          2. Il ruolo delle disciplineStrettamente collegato alle argomentazioni precedenti è il tema del 
          ruolo delle discipline, che ci sembra si presenti sotto due aspetti:
 la disciplinarizzazione precoce della scuola 
          primaria, la riduzione del ruolo formativo delle discipline alla dimensione 
          nozionistica e contenutistica.
 2.1 Ci sembra pedagogicamente sbagliato presentare fin dalla prima elementare 
          gli Obiettivi specifici di apprendimento sotto forma di elenchi disciplina 
          per disciplina, perché così facendo si nega esplicitamente non solo 
          la diffusa pratica degli ambiti, che ha fin qui dato risultati più che 
          positivi, ma anche la delicatezza di un passaggio progressivo dalla 
          Scuola dell’Infanzia ad un ordine superiore. La scelta di presentare 
          fin dalla prima elementare gli elenchi disciplina 
          per disciplina non potrà non indurre atteggiamenti conseguenti nell’azione 
          didattica degli insegnanti. Nonostante, infatti, nel testo si parli 
          di “bisogno continuo di unità della cultura” (p.3 
          Indicazioni – Scuola primaria) è evidente che queste petizioni di principio 
          rimangono lettera morta di fronte alla forza comunicativa dirompente 
          di un elenco che apparentemente semplifica i problemi e che “decreta” 
          l’esistenza delle singole discipline fin dall’inizio della scuola elementare.
 2.2 La scelta operata di presentare sotto forma di elenchi gli Obiettivi 
          specifici di apprendimento esplicita una filosofia preoccupante, dal 
          nostro punto di vista. Il limite, per noi, più grave della proposta 
          sta nel fatto che dall’elenco puntiglioso ed enciclopedico di conoscenze 
          ed abilità risulta del tutto esclusa la dimensione 
          trasversale tra le discipline, ovvero quella parte di “costruzione di 
          competenze”, che soprattutto nella scuola di base – primo ciclo – ha 
          un ruolo formativo ineludibile, ovvero la 
          formazione di atteggiamenti mentali, di categorie logiche, di competenze 
          trasversali, sia sul piano cognitivo (riconoscere le connessioni tra 
          …, saper usare le diverse tipologie di rapporto causa – effetto, ecc.) 
          che su quello sociale – relazionale (lavorare insieme, gestire conflitti 
          e diversità di opinioni, , ecc.), che non fanno riferimento ad una specifica 
          disciplina, ma dovrebbero attraversare tutto il processo di apprendimento, 
          come principi organizzatori e fondanti rispetto alla successiva capacità 
          di continuare ad apprendere.
 Inoltre viene negato quello che rappresenta 
          oggi il campo di crescita cognitiva di un Paese, ovvero il sapersi muovere 
          con familiarità nelle aree di confine tra le discipline che oggi rappresentano 
          la vera sfida epistemologica a cui si devono preparare le persone.
 Presentare poi gli Obiettivi specifici di apprendimento 
          sotto forma di elenchi, divisi per conoscenze ed abilità, al di là dei 
          riferimenti all’ologramma, su cui torneremo, induce negli insegnanti 
          l’idea che ad ogni Obiettivo, esplicitato in una frase, corrisponda 
          un contenuto, ed i contenuti finiscono per essere l’unico fine dell’attività 
          didattica, l’obiettivo di un insegnamento lineare-diretto, 
          mentre le discipline non servono più a fornire i principi organizzatori 
          per la lettura della realtà.
 Non solo. Per ogni disciplina alla puntigliosità dell’elencazione si 
          aggiunge la straordinaria
 sovrabbondanza di conoscenze e abilità e se compito della scuola è organizzare 
          attività con lo scopo di trasformare in competenze l’elenco di conoscenze e abilità indicato, o si raddoppia il tempo 
          scuola o si pensa che le competenze corrispondano strettamente alle 
          nozioni in cui si può tradurre ciascuna di quelle formulazioni.
 Si pone quindi, sempre dal nostro punto di vista, un altro problema 
          molto importante: la deriva nozionistica. Il rischio nozionistico viene segnalato nelle Raccomandazioni che accompagnavano 
          la versione precedente delle Indicazioni: “Rischio [del contenutismo], 
          a dire il vero, molto alto se si interpretassero le conoscenze e le 
          abilità che costituiscono gli obiettivi specifici di apprendimento come 
          l’indice di un’enciclopedia, invece che come la carta topografica”. 
          Il problema è che mancano le strutture logiche trasversali intorno a 
          cui si organizza la mappa, una mappa non è data solo dall’elenco dei 
          toponimi, ma dall’esplicitazione della logica interpretativa ad essa sottesa e che la organizza. In assenza di questi principi 
          organizzatori della mappa, dall’elenco degli obiettivi specifici di apprendimento emerge un solo principio organizzatore, 
          il contenuto.
 Diviene allora legittimo chiedersi cosa si intenda 
          per livelli essenziali, se gli Obiettivi specifici di apprendimento 
          indicano “i livelli essenziali di prestazione che le scuole pubbliche 
          della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini 
          per mantenere l’unità del sistema educativo nazionale di istruzione 
          e di formazione”.
 Questi livelli sono rilevabili attraverso la verifica del possesso delle 
          conoscenze e abilità prescritte dalle Indicazioni? Di tutte? Se la proposta 
          è sovrabbondante e non entrerà mai in un anno scolastico per giunta 
          ridotto, in base a quale criterio si sceglie? 
          Inoltre se la corrispondenza tra conoscenze ed abilità con i contenuti 
          è così immediato, l’unico criterio in base a cui valutare 
          i livelli essenziali sarà la verifica del possesso di quei contenuti. 
          Se questo è, ci sembra davvero difficile che 
          la scuola che si va disegnando possa sfuggire all’equivoco implicito 
          in quegli elenchi, ovvero alla deriva del nozionismo, resa ancora più 
          probabile dalla disciplinarizzazione precoce.
 D’altra parte la nostra interpretazione è ampiamente giustificata quando, 
          tra gli obiettivi specifici di apprendimento, 
          troviamo per la prima elementare “cantare in coro canzoncine in lingua 
          straniera e se necessario mimarle”. Né si sfugge alla deriva nozionistica 
          anche là dove, sul versante opposto, gli obbiettivi 
          indicati sono sovradimensionati, perché in questi casi ridurre la comprensione 
          di processi e di sistemi complessi ad un po’ di nozioni è inevitabile, 
          come ad esempio nel caso della geografia, sempre in prima elementare, 
          dove tra gli obiettivi si indica quello di conoscere “elementi costitutivi 
          dello spazio vissuto: strutture, funzioni, relazioni”, o in scienze 
          sempre in prima “identificazione di alcuni materiali” e “caratteristiche 
          proprie di un oggetto”, obiettivi che potrebbero essere accolti se fossero 
          gli unici su cui lavorare per tutto l’anno, ma se accompagnati da altri 
          dello stesso spessore non possono che far cadere il processo di apprendimento 
          in un vuoto nozionismo.
 3. 
          L’organizzazioneLe scelte organizzative sono la chiave di lettura per interpretare le 
          proposte pedagogiche. Mentre sul piano pedagogico ci sembra prevalga, 
          come già detto, un ritorno alla logica dei programmi, contro quella 
          del curricolo, accanto ad un pericoloso processo di “deresponsabilizzazione 
          professionale”, ciò che cambia radicalmente è la struttura organizzativa. 
          Inoltre non ci convince la scelta di presentare la parte organizzativa 
          in questa veste ed in questo contesto, quando 
          ancora i decreti attuativi non sono stati approvati. Ci sembra, infatti, 
          del tutto anomalo che le questioni fondamentali vengano 
          trattate in una paginetta dedicata a “vincoli 
          e risorse”, in cui si dicono cose fondamentali e si propongono decisioni 
          fondamentali, senza alcuna argomentazione né collegamento esplicito 
          con l’ampia parte sui piani di studio.
 Le scelte organizzative più discutibili ci sembrano 
          essere le seguenti.
 3.1 La proposta dei Laboratori presenta due ordini di problemi. 
          Il primo è che la didattica
 laboratoriale è un modo di fare scuola, che 
          non può essere relegato ad alcuni temi (secondo quanto esplicitato nelle 
          raccomandazioni - che somigliano troppo alle materie di serie B), che 
          costruisce contesti di apprendimento che hanno 
          bisogno di spazi, di risorse professionali ed economiche aggiuntive 
          all’organico “normale”. Non è un caso che le sperimentazioni avviate, 
          senza risorse aggiuntive, dicono che il più delle volte l’attività di 
          laboratorio si è ridotta a una attività rivolta 
          all’intera classe. Il laboratorio, proprio per i processi che avvia 
          ha bisogno di piccoli numeri, “sovrabbondanza”di docenti, un organico 
          cioè funzionale al curricolo di scuola.
 Il secondo problema si evince dalle Raccomandazioni, che nella prima 
          versione hanno accompagnato le Indicazioni nazionali, dove si parlava 
          di 6 laboratori (informatica, lingue, attività espressive, progettazione, 
          attività motorie e sportive, recupero e sviluppo degli apprendimenti).
 Innanzitutto perché 6 e non 8 o 3 o 10, e perché quei 6: dov’è la libertà 
          e la potestà progettuale della scuola? E se 
          la scuola volesse fare tutto per laboratori? Il quadro si aggrava poi 
          se si arriva, come nel caso del Laboratorio di progettazione, ad una 
          minuta prescrizione del che fare e con quali 
          strumenti; ma davvero qualcuno pensa che gli insegnanti siano così sprovveduti 
          da aver bisogno di queste minute “esemplificazioni” che rischiano solo 
          di trasformarsi in elementi prescrittivi e di ulteriormente deresponsabilizzare 
          e deprimere il valore intellettuale della professione?
 3.2 La proposta dei Laboratori di livello. Nel testo proposto i Laboratori 
          di livello sono
 presentati come una delle opportunità organizzative. Ci sembra che in 
          realtà nascondano un rischio molto grave: istituzionalizzare la separazione 
          tra capaci e non capaci, a danno della maturazione degli uni e degli 
          altri. Nelle Raccomandazioni si segnalava una giusta preoccupazione 
          sui rischi del lavorare per gruppi omogenei e sul valore, confermato 
          dalla ricerca educativa, del lavoro per gruppi eterogenei. Anche se 
          poi in quello stesso testo, in altri passaggi – ad es. Scienze e Inglese 
          – i Laboratori di livello venivano introdotti 
          come fatto naturale e neutro, senza controindicazioni, senza esplicitare 
          il problema che si porrà ai docenti, ovvero che non è affatto dimostrato 
          che l’omogeneità accresca la capacità di apprendimento, quando ci muoviamo 
          in una dimensione educativa.
 3.3 La forte riduzione dell’orario obbligatorio e della quota di frequenza 
          indispensabile per
 poter superare l’anno. Queste misure sono ulteriormente aggravate dalla 
          riorganizzazione tra orario obbligatorio ed opzionale, 
          perché si prevede la possibilità per lo studente di far rientrare nel 
          “suo” orario riconosciuto come valido le ore opzionali, con il risultato 
          che un ragazzo potrebbe fare la scuola media frequentando poco più di 
          600 ore di curricolo e facendone circa altre 200 di falegnameria. Ci 
          sembra che così, con la motivazione dell’orientamento alle scelte successive, 
          si voglia rompere di fatto la scuola media 
          unificata, facendo rinascere il vecchio Avviamento professionale sotto 
          le vesti di percorsi differenziati e “personalizzati”, decisi scuola 
          per scuola.
 3.4 La definizione di una figura di docente coordinatore – tutor rischia (ne abbiamo la
 convinzione) di riproporre anche nella scuola elementare quel grande 
          vizio della scuola italiana che è rappresentato dalla percezione nelle 
          famiglie e negli allievi (e spesso tra gli stessi docenti) dell’esistenza 
          di discipline ed attività di serie A e di serie B. Qui abbiamo da una 
          parte il docente coordinatore tutor e dall’altra 
          i docenti di laboratorio, due scuole, due velocità, due attenzioni diverse 
          nello stesso edificio.
 3.5 Infine, sul piano gestionale e organizzativo, 
          come la sperimentazione sta dimostrando, la compilazione del portfolio 
          comporta un alto numero di ore di lavoro. Se queste non saranno riconosciute 
          come luogo di lavoro collettivo, il lavoro che richiede la compilazione 
          del portfolio si trasformerà rapidamente in 
          adempimento burocratico, per ciò stesso inutile, come è stato per le schede di valutazione di qualche anno 
          fa. Senza considerare che questa attività, 
          se non si incrementa proporzionalmente la disponibilità oraria degli 
          insegnanti, toglierà spazio e tempo proprio al lavoro di progettazione 
          dell’apprendimento, che paradossalmente il portfolio 
          vorrebbe migliorare. Se a questo si aggiunge la differenziazione di 
          responsabilità dovuta all’inserimento del coordinatore tutor 
          e la si incrocia con l’aumento di numero di 
          alunni per classe e con l’aumento delle differenze di età nella stessa 
          classe, provocate dall’anticipo, appare evidente che il rischio di trasformare 
          in adempimento burocratico il portfolio sarà 
          un esito inevitabile. Inoltre ci risulta difficile 
          capire perché, in regime di autonomia scolastica, si propongano forme 
          di compilazione così minutamente prescrittive, 
          tanto da delegittimare qualunque “personalizzazione”, ad opera del Collegio, 
          dello strumento.
 Ci preme infine sottolineare che il livello 
          di prescrittività delle Indicazioni Nazionali, già sopra 
          denunciato, rappresenta un problema ancora più grave perché ci troviamo 
          in un contesto organizzativo di riduzione delle ore di insegnamento. 
          Inoltre, per il contesto in cui si dovrà operare (meno risorse umane, meno 
          ore, diversi livelli di coinvolgimento e di responsabilità nel gruppo 
          degli adulti) c’è il rischio ,più che probabile, che il Piano di studio 
          personalizzato si ridurrà nell’indicare quali laboratori deve frequentare 
          il bambino / ragazzo e a quale livello.
 4. 
          Educazione alla convivenza civileSu questo terreno ci sentiremmo particolarmente 
          legittimati a soffermarci, visto che è in questo ambito che la nostra 
          associazione si è impegnata fin dalla nascita per radicare una metodologia 
          di qualità, arrivando anche ad individuare un sistema di indicatori 
          di qualità, oggi acquisito dai livelli più avanzati della ricerca in 
          educazione ambientale. Crediamo, inoltre, sia unanimemente riconosciuto 
          che Legambiente, a partire dai problemi educativi 
          delle così dette educazioni trasversali, ha sviluppato una critica costruttiva 
          ed ha svolto un ruolo positivo nell’evitare 
          che nella pratica della scuola italiana le educazioni trasversali si 
          strutturassero come ambiti separati dai processi curricolari di apprendimento ed educazione. Ma per quanto detto in premessa e nella speranza che una 
          discussione vera possa davvero avviarsi, qui ci limitiamo a segnalare 
          i “titoli” dei problemi principali.
 4.1 Alcune contraddizioni. E’ una materia o no? Si dice di no, ma che 
          vuol dire ologrammatica? – ci si permetta 
          a questo proposito di sollevare un problema lessicale: è davvero così 
          pregnante il termine ologrammatico? a 
          noi non sembra, anche perché esistono già nella letteratura e nella 
          pratica didattica termini come logica della complessità, approccio sistemico, 
          approccio olistico, che meglio e di più potrebbero 
          dare ragione di una intrinseca trasversalità.
 Non ha un suo orario – e questa è una scelta condivisibile -, se non 
          indirettamente nel laboratorio di progettazione, allora chi la fa? Quanto 
          nell’anno, come si fa a trattare tutti quei contenuti, se sono obbligatori, 
          indicati negli elenchi degli Obiettivi specifici di 
          apprendimento?
 E’ una traccia, una proposta di lavoro? quali 
          sono le competenze logico – concettuali e sociali di tipo trasversale 
          per le quali quei temi sono indispensabili? Attraverso quale metodologia 
          si costruiscono queste competenze trasversali, che proprio 
          per la loro natura, si costruiscono più attraverso la metodologia ed 
          il processo che non per la trattazione specifica di questo o quel contenuto?
 4.2 La trattazione di questo tema lascia scoperto un nodo strategico 
          e fondamentale, non è vero che studiare la Costituzione sia condizione 
          necessaria e sufficiente per essere un buon cittadino, il circuito che 
          collega conoscenze, comportamenti e atteggiamenti mentali è molto più 
          complesso e contraddittorio di quanto qui non si voglia far vedere. 
          Il risultato è il fallimento, a cui abbiamo assistito in questi anni, 
          di tutte quelle azioni educative che, misurandosi con questi temi non 
          disciplinari ma direttamente orientati a condizionare il comportamento, 
          non hanno saputo farsi carico della complessità dei processi che si 
          volevano attivare.
 4.3 Se questo fin qui indicato è senza dubbio il nodo imprescindibile 
          che va sciolto pena il totale fallimento di questa parte delle Indicazioni, 
          ci preme sottolineare qui un altro aspetto. 
          Nelle Indicazioni, anche se con rapidi passaggi, si parla del valore 
          della partecipazione e del volontariato, (citato nel profilo finale), 
          ma questi elementi di civiltà non vengono mai 
          ripresi negli Obiettivi specifici di apprendimento, sostituiti da un’elencazione, 
          che non temiamo definire casuale, di temi e atteggiamenti che non delineano 
          nessun campo organico di azione.
 Manca invece in tutto il documento il riferimento 
          alla democrazia, una dimenticanza?
 Due 
          osservazioni finaliCi sembra che sia del tutto sovradimensionato quanto detto nel profilo 
          finale (p.6) che a 13 anni il ragazzo “elabora, 
          esprime e argomenta un proprio progetto di vita, che tiene conto del 
          percorso svolto e si integra nel mondo reale 
          in modo dinamico ed evolutivo”. La nostra esperienza quotidiana ci porta 
          a dire che a questa età il progetto di vita 
          tende a cambiare con una frequenza inquietante, spesso in forza di sollecitazioni 
          esterne del tutto casuali.
 Ci piacerebbe un documento agile, di facile lettura, comprensibile anche 
          ai non addetti ai lavori, che faciliti la comprensione 
          delle sfide in campo e delle trasformazioni a cui si mira, anche quelle 
          che non condividiamo, che ci libererebbe dal pessimo esercizi di dover 
          leggere tra le righe.
 Come ci piacerebbe, invece delle liste di contenuti, un raggruppamento 
          per macrotemi fornendo all’insegnante il retroterra culturale ed epistemologico 
          perché davvero sia in grado di capire, ad ogni fase dello sviluppo, 
          quali competenze e in quale forma devono essere costruite, e con quali 
          risorse può affrontare il cammino.
 
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