Il Medioevo
La Roma cristiana ha ormai a che fare con i barbari. Li aveva avuti alleati nell'opposizione all'impero e li aveva in gran parte cristianizzati, spesso in forme condannate poi come ereticali, ma ne è dominata militarmente. Questi barbari, come scriveva il vescovo Salviano, loro ammiratore, erano uomini di guerra, ignari di lettere, «totius literaturae ac scientiae ignari» (De gubernatione Dei, v, 2,8): ma avevano anch'essi una cultura, che ci ricorda l'epica omerica e i carmina convivalia romani. Come già i greci di fronte ai romani, così ora i romani di fronte ai barbari appaiono un popolo inerme, uomini di penna e non più di spada.
In questa situazione, arma e togae, milizia e cultura si volteranno le spalle, milites e clerici saranno non soltanto due ordini ma due popoli separati, l'uno dominante, l'altro dominato. Ma i barbari, che dominano con le armi, non sanno amministrare lo Stato, e per questo devono affidarsi ai Romani, come farà Teodorico cori Cassiodoro, e respirarne la cultura. Per questa via la cultura tornerà ad essere un'arte politica, di dominio, e a poco a poco verrà meno la rigida divisione tra i popoli, e i barbari entreranno anche loro a far parte dei clerici.
Durante il dominio in Italia degli Ostrogoti nella prima metà del secolo vi,, Teodorico, pur favorevole alla convivenza tra i due popoli, mantenne ben distinti i due diversi compiti delle armi e delle toghe. Ai suoi Goti raccomandava: «Fate progredire i vostri giovani nelle discipline marziali... Mostrino i nostri giovani nella guerra il valore che appresero nelle esercitazioni» (Cassiodoro, Variae, v, 23-24). E quando, dopo di lui, la figlia Amalasunta intendeva educare da romano il figlio Atalarico, i suoi nobili l'ammonirono che «le lettere non hanno a che fare col valore, e gli insegnamenti di persone anziane hanno perlopiù a che fare con la viltà e la remissività: occorreva dunque che un ragazzo, destinato a dar prove di coraggio e ad acquistarsi gran fama, si liberasse dalla paura dei maestri e si esercitasse invece nelle armi». Dove è da notare che la scuola veniva ancora interpretata per i giovani come il luogo della paura dei maestri. E a ragione aggiungevano: «Perciò, cara sovrana, manda a quel paese codesti pedagoghi, e metti accanto ad Atalarico un po' di coetanei: questi crescendo con lui, lo spingeranno al valore secondo l'uso dei barbari» (Guerra gotica, I, 2).
Gli esercizi guerreschi dei goti erano tirocinio e mimesi di guerra: solo che, a differenza di quanto Tacito ci aveva detto dei germani dei suoi tempi, che gareggiavano e combattevano a piedi, i loro erano gare equestri. Un esempio della bravura acquisita ce lo dà il re Totila, che prima della battaglia di Tagina del 552 si esibisce davanti all'esercito bizantino in spettacolari evoluzioni a cavallo. Dopo la sconfitta dei Goti a opera dei Bizantini in una guerra che finì per fare dell'Italia un deserto, i Longobardi, che dominarono l'Italia per altri due secoli, appaiono ancor più un popolo essenzialmente guerriero, come ci testimonierà Paolo Diacono, longobardo egli stesso, nello scrivere nell'VIII secolo la loro storia. I loro sport sono simili all'esibizione di Totila e ricordano un po' gli Equirria o l'Equus October dei Romani antichi.
Quanto ai clerici, cioè gli intellettuali, in questi secoli ancora in prevalenza romani, sono scomparse le loro scuole di grammatica e di retorica, e anche le scuole cristiane more Iudaeorum o Synagogae, testimoniateci dall'Ambrosiaster attribuito a sant'Ambrogio, che parla di «maestri che solevano istruire i fanciulli nell'alfabeto e nelle lettere» (Patrologia latina, XVII, 387). Così la quasi totalità della popolazione è analfabeta, e quel tanto di cultura che sopravvive ha sede nelle chiese e nei conventi, dove più tardi troveremo insieme romani e barbari. Ma quanta e quale è questa cultura?
Resta a lungo il dibattito sull'opportunità di leggere i classici. Dopo che il Concilio di Cartagine del 400 d.C. l'aveva proibito, il risultato fu un maggiore analfabetismo degli stessi chierici, sì che papa Zosimo nel 418 istituì scuole di Sacre Scritture; ma papa Gelasio nel 494 e santi fondatori di conventi constatano la perdurante ignoranza dei chierici. Ma Cassiodoro, che fonda il convento di Vivarium in Calabria, dichiara: «I santi padri non hanno decretato di rifiutare gli studi delle lettere classiche» (Inst., i, 28,3); e altri concili spagnoli e francesi e regole dei conventi continuano a raccomandare di istruire i chierici nelle Sacre Scritture, anche se è difficile dire con che efficacia. E verso il 600, Gregorio Magno, scrivendo a un monaco, di nuovo deplora lo studio dei classici: «Ci è pervenuto, e non possiamo ricordarlo senza vergogna, che la tua fraternità insegna ad alcuni la grammatica; e ciò è grave mancanza, perché le lodi di Cristo non possono stare sulla stessa bocca con le lodi di Giove» (Epistulae, XI, 34). La sola cosa che si concede è che lo studio della "grammatica" possa servire alla comprensione delle Scritture.
Tuttavia, soprattutto nei conventi d'Italia, non si interrompe del tutto la consuetudine di istruire un po' nelle lettere gli oblati, cioè i fanciulli "offerti" ai conventi dai loro genitori: dovevano saper leggere i testi sacri e imparare a memoria i salmi, la cui recitazione faceva parte della liturgia. Ma questa cura dell'istruzione non appare né preminente né costante, e nei conventi non tutti erano in grado di leggere e scrivere: non lo si chiedeva certo al novizio, e tanto meno al resto dei fedeli.
Spesso il novizio si presenta analfabeta al convento, tanto è vero che si prevede che «scriva di sua mano o faccia scrivere da un altro la sua richiesta di ammissione» (Reg., 58). Una cura minima per un minimo saper leggere, ed eventualmente scrivere, è provata dal corredo dei frati, che accanto alle vesti, a un coltello e ai fazzoletti prevede il graphium e le tabulae, come dire penne e quaderni. Ma, se poi si prescrive che la lettura di testi sacri durante la mensa sia fatta «da chi è in grado di leggere in modo da edificare chi ascolta», ciò significa che non tutti apprendevano a farlo (Reg., 38).
Anche nella Regula di san Benedetto, del 540 circa, l'istruzione traspare ma non è preminente come la cura dell'educazione morale. Nell'ossessione della loro lasciva aetas si raccomanda una pia consideratío per i fanciulli, che devono essere trattati «con oculata disciplina e vigilanza» (Reg., 70, 4); ma la conclusione è che adoro toccano le punizioni fisiche che sono risparmiate ai monaci adulti: «Quando commettono qualche colpa siano puniti o con digiuni prolungati o con gravi battiture, affinché si correggano» (Reg. 30, 1-3); e ancora, mentre per gli adulti che sbaglino nella liturgia le punizioni consistono in atti di umiliazione, « i fanciulli, invece, per una tale colpa siano battuti» (Reg. 45, 1-3). Non si può davvero dire che il sadismo pedagogico sia finito coi cristianesimo.
Ormai la "grammatica", cioè il latino classico, è estranea alla maggior parte delle popolazioni, soprattutto quelle barbariche rimaste fuori del territorio dell'Impero romano, alle quali non solo la lingua e le sue regole (methodica) ma anche la letteratura (historica), cioè la cultura, sia classica sia biblica, sono cose totalmente estranee; e occorrerà interpretare i miti biblici, cioè le Sacre Scritture adattandoli alle loro tradizioni. Ecco allora che si cercano canoni interpretativi diversi da quello letterale, e si parla di un intellectus triformis che interpreta i testi secondo la storia, la morale e lo spirituale; e presto si definiranno i quattro livelli che ritroveremo poi anche nel Convivio di Dante: letterale, morale, analogico, anagogico. Intanto, si sistema definitivamente la serie dei gradi dell'istruzione: il trivium delle arti strumentali, grammatica, dialettica, retorica, e il quadrivium dei contenuti concreti, aritmetica, musica, geometria, astronomia, che aveva avuto un suo primo adombramento nella Repubblica di Platone.
Niente di nuovo c'è nella didattica degli elementa litterarum. Per leggere, si comincia dall'apprendimento a memoria dei nomi delle lettere dell'alfabeto, come nella Tragedia grammaticale ricordataci da Ateneo; per scrivere, si imitano più volte le lettere tracciate dal maestro, o si usa il productalis, una specie di normografo, seguendo i cui solchi si tracciano le lettere. Per l'aritmetica Beda ci illustra «l'utilissima e rapidissima abilità del contare sulle dita, sia per dare la massima facilità nel contare, sia per passare, avendo meglio preparato l'ingegno di chi legge, a calcolare la serie dei tempi». Era la romana computatio: calcolando sulle dita delle due mani, appoggiandole a questa o quella parte del corpo, si indicavano i numeri fino a un milione: un'abilità che noi oggi abbiamo perduto. Ma entro quelle tecniche i contenuti sono mutati: non solo invece dei classici latini si leggono i testi biblici, ma anche l'aritmetica o computo ormai serve soltanto per il calcolo dei tempi del calendario liturgico: una cosa in cui i cristiani intendevano distinguersi dagli ebrei, ad esempio nel calcolare la Pasqua.
La testimonianza più chiara sulla didattica ci viene dal monaco tedesco Walafried Strabo, abate di Reichenau, che così scrive di sé negli anni 815-816: «Consegnato con altri novizi a un maestro, dopo poche settimane ero arrivato al punto di leggere abbastanza correntemente non solo quello che mi si scriveva sulla mia tavoletta cerata, ma tinche il libro latino che mi era stato dato». Ma che cosa significava questo "leggere correntemente" è presto detto: significava semplicemente pronunciare senza capire niente. Infatti; prosegue: «Poi ebbi un libriccino tedesco, che invero mi costò più fatica alla lettura, ma in cambio mi dette una grande gioia: quando avevo letto qualche cosa, riuscivo a capirla, cosa che non mi avveniva col latino; sicché da principio mi meravigliai molto che si potesse insieme leggere e capire ciò che si era letto» (Ricordi di scuola, li. 267). Chi si stupisse di questa notizia, abbia pazienza e fra un millennio vedrà che le stesse pratiche didattiche si useranno ancora nelle pratiche del catechismo e della liturgia.
E non mancavano quelle che potremmo chiamare prove d'esame. Nel sec. VIII, il monaco longobardo Paolo Diacono, nel suo Commento alla regola di san Benedetto, dopo aver ricordato che «i fanciulli debbono essere istruiti cori cura», ce ne dà un esempio: «Quando arrivino ospiti dotti, uno dei fanciulli deve essere esaminato in questo modo: il Priore deve insegnargli ciò di cui deve parlare con l'ospite, o di grammatica o di canto o di computo o di qualche altra disciplina, e deve osservarlo durante questa specie di esame pubblico, per poi fargli le sue osservazioni» ( cit. in G. Manacorda, 1913, I, 98-99).
Una certa ripresa dell'interesse del potere politico per l'istruzione si può osservare nell'impero carolingio. Si tratta anzitutto dell'istruzione dei monaci in vista della catechizzazione e magari di un po' di alfabetizzazione delle masse; e ciò corrisponde a una ripresa della vita delle città, dove parrocchie e canoniche tornano ad essere in qualche misura centri di istruzione.
I barbari, pur conservando come propria l'arte delle armi. hanno ormai pienamente accolto i resti della cultura romana, ormai cristiana: i due momenti delle armi e delle lettere, separatisi al momento delle invasioni, pur restando distinti, non appartengono in esclusiva a un sol popolo. Carlo Magno, analfabeta, sarà esaltato soprattutto perché «bellipotens, animosus heros, fortissimus armis»; tuttavia, pur facendo addestrare i figli nella caccia e nell'educazione secondo il costume dei Franchi (more Francorum), li faceva istruire anche nelle discipline liberali e nelle leggi civili. Come già gli Ostrogoti e i Longobardi, anche i Franchi avranno negli sport equestri l'esercizio atto alla preparazione dei giovani alla guerra; e ormai si può cominciare a parlare di giostre, tornei e duelli, forme di sport nobiliari, che erano tirocinio e mimesi di guerra, e che dureranno ancora per un millennio.
Ma intanto si assiste a un nuovo intervento del potere politico nel campo dell'istruzione. Già un primo capitolare di Carlo Magno, la Littera de epistolis colendis, del 787, e poi la Admonitio generalis o Capitulare ecclesiasticum, del 789, contengono indicazioni, nelle quali sembrano avviarsi a soluzione le questioni dibattute secoli prima circa l'utilità o meno della grammatica per lo studio delle Sacre Scritture: «Gli ecclesiastici debbono dedicarsi all'insegnamento e oltre a non trascurare gli studi letterari..., devono apprendere tenacemente per poter penetrare più facilmente e più correttamente i misteri delle scritture» (in G. Manacorda 1913, t, 43). Certo, sempre di Sacre Scritture si tratta, e non di testi classici, sebbene si osservi un rinnovamento anche stilistico, che giustifica il nome di rinascimento carolingio.
Alcuni concilii successivi, dell'inizio del secolo IX, si richiameranno a quanto «il Signore re Carlo ha comandato» (sicut dominus ree Carolus imperavit). Ma c'è molta oscillazione: se da alcune disposizioni di Carlo pare di poter dire che egli affidasse a conventi e parrocchie anche l'istruzione dei laici, il Capitolare monastichum dell'817 del figlio Ludovico il Pio prescrive invece che nei monasteri non si faccia scuola se non agli oblati; e poco più tardi sempre Ludovico il Pio, intervenendo in Italia col Capitolare olonese dell'825. istituisce nelle sedi maggiori (in congruentissimis sedibus) di Torino, Pavia, Cremona, Firenze, Fermo, Vicenza, Cividale e Ivrea scuole per istruire i laici che, con l'eccezione di Ivrea, sembrano affidate a maestri laici, se pur ce ne sono. Quattro anni dopo saranno gli stessi vescovi francesi a chiedere a Lotario di fare anche in Francia «scuole pubbliche per vostra iniziativa», cioè a cura del potere politico, esentandone la Chiesa, che si riserverà di provvedere all'istruzione del clero.
A cominciare da quegli anni, inizia con papa Eugenio il una legislazione in merito che sarà poi accolta nelle Decretali. Già il Concilio romano dell'826, lamentando che non si trovavano maestri e che non c'era alcun interesse per lo studio delle lettere, aveva sancito: «In tutti i vescovadi e nelle parrocchie da esso dipendenti e negli altri luoghi in cui sarà necessario si abbia la massima cura di nominare maestri e dottori che insegnino le lettere, le arti liberali e i sacri dogmi» (Con., IV ). Ma si pensa soltanto all'istruzione del clero, e non dei laici, come confermerà nell'853 il Concilio romano tenuto sotto papa peone tv, che tuttavia accenna anche a scuole parrocchiali per il primo indottrinamento religioso dei laici.
Dunque, scuole per il clero nei conventi e nelle parrocchie, e anche, qua e là, di nuovo dopo secoli, scuole "pubbliche" per i laici nelle maggiori sedi cittadine. Da quali di queste nasceranno le scuole e soprattutto le università future?
Ma intanto ci conviene dare un'occhiata anche all'addestramento alle arti produttive, un angolo della società che non intendiamo dimenticare.
Se ne intravvede qualche aspetto nella Regola di Benedetto. Nella differenza che si fa tra i monaci, che rappresentano all'interno del convento il ceto dominante e privilegiato, e gli addetti ai lavori produttivi, sia agricoli che artigianali (Reg., 57, 1-3), si ammonisce che, «se esigenze locali o povertà richiedano che i monaci siano personalmente occupati nella raccolta delle messi, non abbiano ad adirarsene» (Reg., 48, 1-2; 7-9). A lavorare professionalmente erano dunque altri, non loro; ed è piuttosto per evitare l'ozio peccaminoso che si studia e si lavora, non per uno scopo intrinseco.
Quanto agli artifices presenti nel convento, si prescrive di «esercitare in completa umiltà le loro rispettive arti, purché l'abate lo permetta», e senza ricavarne profitti personali; e, «se qualcuno di loro si insuperbisce per la competenza nella propria arte, sembrandogli di' portare un qualche utile al monastero, venga allontanato da tale arte e non se ne occupi più» (Reg., 57, 1-3). Esistono dunque artigiani e contadini in condizioni che si possono definire di servi della gleba, la cui vita è incorporata nella proprietà del convento, e che dispongono di una parte dei loro prodotti, ma sempre dipendendo dal convento.
Intanto, fuori dai conventi, nelle città si continua a produrre nelle varie arti: tessitura, falegnameria, metallurgia, edilizia, oreficeria. In queste attività si ha qualche testimonianza del perdurare di forme superstiti di organizzazione del lavoro nelle universitates o collegia artificum.. Una legge del 750, del penultimo re longobardo, Astolfo, distingue tra i negotiatores o artifices tre livelli: maiores, sequentes e minores, quasi anticipando le future divisioni tra arti maggiori e minori; e al loro interno distingue magistri e discipuli. Insomma, si tramandavano le abilità dei vari mestieri, conservando un minimo di consuetudini non solo nei modi della produzione, ma anche nei rapporti tra apprendisti e maestri, nelle norme del tirocinio, nel mercato. Come dire che sopravvivono strutture sociali articolate e in qualche misura codificate.