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Beata indulgenza

da www.sinistra-democratica.it

E' stata posta il 5 gennaio alla Camera la fiducia sul decreto 180 su Università e ricerca. Nessun margine di discussione sul testo. Così è, blindato. E d'altra parte su scuola e Università in questa legislatura  tutto è stato deciso per decreto e sottoposto al voto di fiducia. Dal decreto 112, al decreto sul maestro unico a quest'ultimo su Università e ricerca.  Altro che volontà di discutere, come invece spesso ripete la ministra Gelmini. A meno che non si vogliano contrabbandare per accordi bipartisan i pochi emendamenti approvati in Senato  tra quelli presentati dall'opposizione.

Un decreto peraltro pasticciato, cresciuto su se stesso, che non affronta e neppure risolve nessuno dei problemi dell'Università e della ricerca e non modifica di fatto l'impostazione della legge 133. Anche se dalla grande stampa viene presentato come una svolta nelle politiche per l'Università. Rimane la logica dei tagli,  il pesante ridimensionamento del fondo di funzionamento ordinario. Un milione e mezzo  in tre anni non è certo cosa da poco.
  In altri paesi europei investire nell'istruzione e nella ricerca sta diventando  in questo momento una scelta per  arginare la crisi. Per fare un esempio, in Svezia non solo la formazione impegna il 3% del Pil, come previsto dagli accordi di Lisbona, ma ci sono anche stati  recentemente finanziamenti aggiuntivi.

E l'Italia è l'ultima dei 18 paesi OCSE sia per quote di Pil destinate all'Università, sia per quote di Pil  destinate alla ricerca.

Per quanto riguarda il merito e la qualità, termini che danno il titolo al provvedimento, siamo agli annunci piuttosto che alla sostanza. Nel testo del decreto  si parla di una quota minima (il 7% del finanziamento ordinario e straordinario) da destinare agli Atenei di qualità, ma la norma è stata procrastinata di un anno, e i criteri per definire la qualità rimangono saldamente in capo al Ministero.

Non migliora la disciplina  del reclutamento né per quanto riguarda il  blocco del turn-over né per quanto riguarda le procedure concorsuali. Il blocco del turn-over per le Università "virtuose" (ma per quanto lo rimarranno, visti i tagli pesanti della legge 133?) viene portato dal 20% rispetto al numero complessivo dei pensionamenti  al 50%, con il 60% da destinare all'assunzione di ricercatori. Ma, facendo riferimento a una legge morattiana, si  istituzionalizza la figura dei ricercatore precario (a tempo determinato), ponendo in concorrenza i contratti a tempo determinato con quelli a tempo indeterminato.

E la disciplina dei concorsi continua ad avvitarsi  in procedure complicate e burocratiche che non risolvono alla radice il problema di un reclutamento trasparente e legato al merito. Perché non affrontare come hanno chiesto i sindacati, le comunità scientifiche, gli studenti e i precari  un confronto vero su questa questione? Perché non legare, come in altri paesi, il reclutamento a una valutazione e a una verifica della qualità delle scelte fatte, piuttosto che continuare a oscillare tra concorsi locali, nazionali, sorteggi e quant'altro? Davvero si sconfigge il cosiddetto potere dei baroni con il sorteggio dei commissari? E  con l'imposizione di pubblicazioni scientifiche? E perché mai  la qualifica di pubblicazione scientifica deve essere decisa dal Ministero (art. 3 ter)? Infine i fondi per il diritto allo studio aumentano, ma solo per il 2009, mentre è evidente che su questo terreno ci sarebbe bisogno di continuità.

Insomma, perché si continua a chiamare questo decreto riforma dell'Università? 
Una riforma presupporrebbe che si parlasse di didattica, di governance, di investimenti, di diritto allo studio. Presupporrebbe che non si strozzasse l'Università pubblica, favorendo quella privata e anzi invogliando quella pubblica a privatizzarsi attraverso le Fondazioni.
E d'altra parte la campagna mediatica contro l'Università pubblica ha avuto i suoi effetti. Partendo certo dai suoi limiti, da insufficienze  e da distorsioni profonde contigue a illegalità e a perseguibili reati.

Ma quella proposta dal Ministro è il contrario di una seria riforma, serve ad utilizzare i fenomeni degenerativi pur presenti nell'Università italiana per mettere l'intero sistema universitario a pane e acqua, dando un colpo al sistema pubblico. Ci troveremo forse domani a sentire le richieste anche dell'Università privata di poter ottenere contributi diretti dallo Stato?

Anche per questo la campagna di cui troviamo traccia ogni giorno sui giornali sull'improduttività dell'Università italiana rischia di essere in questo contesto legislativo fuorviante e persino collusa. Si grida allo scandalo prima di capire cosa realmente avvenga nel sistema universitario e si rischia così di legittimare come iniziativa di riforma un decreto che toglie ossigeno al sistema formativo universitario.

Questa cosa invece sembrano averla capita bene gli studenti, che già dal decreto di luglio del Ministro Tremonti hanno afferrato il nocciolo della questione: in un  paese che progetta il lavoro del futuro come estensione della condizione di precarietà l'Università è un optional o una prerogativa riservata a chi ha i soldi per pagarsela. Che non garantisce uguaglianza di opportunità. Dove anche il merito è qualcosa che si compra e si vende. "Non rubateci il futuro" era appunto uno degli slogan più acuti e drammatici del movimento.  Inviterei  a leggere una bella ricerca comparativa del Dipartimento di studio del lavoro e del welfare dell'Università degli studi di Milano su Università italiana e sistemi europei, coordinata da Marino Regini, che non nasconde limiti e patologie del sistema ma, con dati verificabili e non con impressioni, intende arginare la "bulimia denigratoria"che sembra aver colto mass media e studiosi.

Resta il fatto che il dibattito su una questione così importante sia ridotto spesso a luoghi comuni e a toni appunto scandalistici. E questo forse può scoraggiare i tanti che vi lavorano con impegno e onestà, ma soprattutto induce  nel senso comune la convinzione che non vale proprio la pena di spenderci soldi: un vero suicidio per un Paese che ha perso, o venduto all'estero, tutti i punti di qualità del suo sistema produttivo.

Alba Sasso

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