Cookie per gli annunci di Google e norme sulla privacy


Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti

30° Convegno Nazionale Pisa 21, 22, 23 marzo 2002

Il Diritto di tutti alla cultura

Relazione introduttiva

Domenico Chiesa presidente nazionale del Cidi


 

«Sappiamo tutti che sulla scuola si gioca un'idea di società e un'idea di futuro. È questo che ne fa una frontiera strategica per la democrazia, in una fase in cui le idee neoliberiste manifestano esplicitamente la volontà di ridurre al mercato l'informazione, la formazione, l'istruzione, gli stessi diritti sociali».

 Attorno a questo concetto Alba Sasso concludeva la sua relazione al Convegno Nazionale del Cidi di Ferrara: è passato un anno e i problemi della nostra scuola, gli stessi ma aggravati, si collocano in uno scenario tragicamente trasformato da avvenimenti che hanno aperto le porte di un mondo nuovo.

Ancora più forte diventa il bisogno di approfondire e argomentare sulla scuola e sul suo intreccio con il futuro della società.

Al centro del convegno di Ferrara avevamo posto il problema del "senso delle riforme"; riforme che erano in atto in una direzione che si stava definendo attraverso un significativo e intenso lavoro per la costruzione delle indicazioni curricolari nazionali riferite all'intero percorso formativo dai tre ai diciotto anni.

In questo anno abbiamo dovuto fare un passo indietro per riprendere, ribadire e rilanciare con forza quel principio di fondo che è alla base di un possibile senso della scuola e del suo rinnovamento: la cultura è un diritto per tutti.

Vorrei iniziare questo intervento proprio attorno a queste tre parole: CULTURA, DIRITTO, per TUTTI.

 

 

Cultura.

Fernando Savater recentemente ha sottolineato il suo sconcerto nel rilevare la mancanza preoccupante di cultura:

«Quello che mi spaventa è che ci siano sempre più persone con discreta competenza professionale ma con perfetta incompetenza sociale. (.) persone carenti di interesse civico e della capacità di esplicare le attribuzioni del cittadino. (.) Formare professionisti è facile, il difficile è formare cittadini».

Cos'è la cultura?

Secondo Bruner è «lo stile di vita e di pensiero che costruiamo, negoziamo, istituzionalizziamo e infine (quando tutto è sistemato) troviamo rassicurante chiamare "realtà"».

Nella definizione di Jean Rostan è «ciò che l'uomo aggiunge all'uomo».

Per meglio sviluppare il ragionamento mi faccio aiutare dal professor Antolini di Jerome David Salinger.

Il professor Antolini accoglie in casa il giovane Holden e gli rivolge un'ultima lezione:

«Non sto cercando di dirti che soltanto gli uomini colti e preparati sono in grado di dare al mondo un contributo prezioso. Non è vero. Ma sostengo che gli uomini colti e preparati, se sono intelligenti e creativi, tanto per cominciare, e questo purtroppo succede di rado, tendono a lasciare nel proprio passaggio, segni di gran lunga più preziosi che non gli uomini esclusivamente intelligenti e creativi. Tendono ad esprimersi con più chiarezza, e di solito hanno la passione di seguire i propri pensieri fino in fondo. E, cosa importantissima, nove volte su dieci sono più modesti dei pensatori non preparati».

La cultura è sempre più una risorsa indispensabile per il singolo e per la società.

La cultura è la conoscenza che entra nella nostra vita, la stravolge e le può ridare senso, che può essere uno strumento di riscatto; la cultura è un bene importante, permette di capire la nostra storia e di dialogare con quelle degli altri, di capire il passato e di costruire il futuro per sé e per/con gli altri, è base per il lavoro ma non si esaurisce in esso, è libertà, è possibile per tutti e la scuola è uno degli strumenti fondamentali per la sua conquista come diritto

Ecco la cultura è un diritto.

 

"Diritto"

In un recente intervento Stefano Rodotà si chiede:  «Sono compatibili i diritti con la fase storica che stiamo vivendo?» e si potrebbe aggiungere: in un tempo in cui i diritti sembrano essere sostituiti dalla "bontà" del "principe" e la solidarietà ridotta a beneficenza?

A livello internazionale dopo il drammatico 11 settembre del 2001 e, nel nostro piccolo in Italia, dalla scorsa primavera, stiamo entrando in un mondo in cui sembrano esistere ragioni superiori sul cui altare sacrificare parte, non marginale, dello stato di diritto.

È una deriva pericolosa contro la quale è necessario opporsi: solo nello stato di diritto (a differenza dallo stato dispotico e dallo stato assoluto) l'individuo ha piena e compiuta cittadinanza. Lo stato di diritto è lo stato dei cittadini.

È indubbio che i diritti dell'uomo sono una delle più grandi invenzioni della nostra civiltà.

Ma è utile continuare a rafforzare la consapevolezza che i diritti dell'uomo, anche quelli concepiti come "naturali", sono fatti storici, sono diritti nati in particolari momenti, frutto e risultato di impegno e di lotte per scardinare privilegi, spesso raggiunti «gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre»:  vanno continuamente riconquistati.

 

«Diritti dell'uomo, democrazia, pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico:senza diritti dell'uomo riconosciuti ed effettivamente protetti non c'è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti.» (Bobbio)

Ripartire dai diritti come anche alcuni movimenti stanno proponendo in questi mesi, non significa chiudersi in una logica minimalista, strumentale o di conservazione   significa rilanciare l'idea di una società che si sviluppa sulla garanzia dei diritti di libertà e sulla promozione dei diritti sociali.

Serve riapprofondire e ricercare livelli più altri di sintesi attorno all'apparente contraddittorietà tra diritti di libertà e diritti sociali nella consapevolezza che in realtà proprio nei diritti sociali è rintracciabile una integrazione dei diritti di libertà. La reale possibilità di assicurare i diritti di libertà comprende lo sviluppo di alcuni diritti sociali fondamentali.

La cultura è uno di questi diritti sociali fondamentali.

 

 

Tutti. Non uno di meno

Quando un bambino, ogni bambino, nasce ha il diritto a poter conquistare, alla pari di ogni altro bambino, quegli strumenti culturali che gli permetteranno di partecipare con piena cittadinanza alla vita.

Il diritto/dovere alla cultura rappresenta la base per il patto cittadini-società e la promozione di tale diritto è tra i pilastri della nostra carta costituzionale e non è superfluo ricordarlo: «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

 

 

Il contesto storico segnato dal fenomeno della globalizzazione segna in modo molto forte le tematiche sulla scuola che vogliamo affrontare in questo nostro convegno: si sono aperte le porte di un Mondo Nuovo e i fatti dell'11 settembre ne hanno accelerato lo sviluppo rendendo ancor più urgente il bisogno di capire.

Come contributo dedichiamo gli approfondimenti di questa prima mattinata e il confronto della mattinata di chiusura.

Sta crescendo in questi ultimi anni la consapevolezza che la globalizzazione rappresenti un processo di grande portata carico di contraddizioni e di effetti sia negativi che positivi in riferimento ai meccanismi internazionali del mercato, dell'ordine politico e istituzionale delle identità culturali; il complesso movimento che si oppone alla logica solo mercantile della globalizzazione esprime tale consapevolezza e la voglia di capire e di ribaltare gli indirizzi dello sviluppo.

 

Si possono individuare alcuni livelli di contraddizione attorno ai quali sollecitare la riflessione:

1. La globalizzazione è una tendenza ambigua, un processo duale: si espande oltre lo stato-nazione verso il più vasto mondo ma nel contempo si spinge, in modo complementare,verso forme di nuovo-localismo ("glocalizzazione" nella definizione di Dahrendorf)  e aspira a portare a questi livelli le sedi delle decisioni.  

Ma questa dimensione locale non corrisponde a quella delle piccole comunità storiche unite da reali elementi di vita in comune bensì dall'invenzione di ambiti regionali spesso solo artificiosamente omogenei che possono sviluppare una pericolosa tendenza all'intolleranza verso l'interno, nei confronti delle minoranze, e aggressività verso l'esterno, nei confronti dei vicini.

2. Nel mondo globalizzato, come fino ad ora si è sviluppato, crescono le disuguaglianze. Il potere di alcuni soggetti economici è diventato un potere mondiale che supera quello di molti governi; è aumentato il divario tra i redditi più alti e quelli più bassi; si sono formate nuove forme di disuguaglianza; la stratificazione internazionale del lavoro ha aumentato il numero dei bambini soggetti a lavori pesanti e non protetti; ad una mobilità sociale oggettiva limitata fa riscontro una speranza di mobilità molto alta come solo frutto dell'ideologia dominante.

3. Il mondo nuovo della globalizzazione ridisegna anche il mercato del lavoro producendo sviluppo e declino di settori professionali, riducendo i livelli di sicurezza, contrapponendo Nord-Sud del mondo a livello dei salari e delle condizioni di lavoro, modificando nel segno dell'incertezza il rapporto tra il lavoro, tecnologia e qualificazione.

Vi è un elemento significativo e particolarmente collegato alla mondializzazione dei mercati: la globalizzazione spinge l'impresa ad «utilizzare la minor quantità possibile di forza lavoro per unità di prodotto e acquistare esclusivamente in ogni dato momento - il che vuol dire in molti casi ogni giorno - la quantità di lavoro necessaria per soddisfare la domanda a breve termine».

È la forma esasperata di ciò che con molta spigliatezza si chiama flessibilità che, fuori da regole, può avere ricadute negative sia sull'economia, sia sui soggetti. È un fenomeno che spesso viene affrontato con supponenza e faciloneria.

Mi pare che il giudizio di un autorevole sociologo come Luciano Gallino possa far giustizia di tale superficialità di approccio. Lo propongo: «Un orizzonte di scarsa sicurezza per il futuro sarà probabilmente una caratteristica distintiva del mercato del lavoro mondiale per i prossimi decenni. È possibile che si tratti di una fase obbligata per l'economia divenuta planetaria prima che essa raggiunga, in quali modi non è ancora dato prevedere, nuovi punti di equilibrio. Tuttavia chi pensa di rendere permanente, quale elemento naturale della nuova economia al tempo stesso globalizzante e localizzante, un tasso elevato di lavori in vario modo classificabili come insicuri perché temporanei, precari, non competitivi, dovrebbe riflettere sul fatto che il senso di insicurezza sul proprio destino individuale e familiare, unito al tasso di angoscia collettiva che ne deriva, è stato il motore di alcuni dei più violenti movimenti sociali della storia».

4. La questione della globalizzazione è anche e soprattutto una questione di democrazia (Vattimo).

Le decisioni stanno emigrando dal tradizionale spazio della democrazia, ponendo il problema di come possa avvenire il controllo sul potere da parte dei popoli e dei cittadini.

Si sta approfondendo la crisi delle grandi istituzioni nella funzione di intermediari tra i cittadini e il potere; Dahrendorf individua nei grandi media e nelle macchine-partito le nuove forme di intermediazione ma ne segnala pure i rischi che ne derivano.  

Il rischio di fondo diventa che i cittadini siano sempre meno chiamati a svolgere il mestiere di cittadini.

 

È indubbio che tale processo abbia subìto una negativa accelerazione dopo l'attentato dell'11 settembre incontrando la pericolosa emergenza militare che può significare innanzitutto riduzione delle libertà civili e incrinatura dello stesso ordine liberale composto da due elementi distinti ma non separabili: la democrazia e la pienezza dello stato di diritto. 

 

Ma nel contempo, negli ultimi anni, ad una globalizzazione affidata solo alla logica del mercato si va contrapponendo sempre più una globalizzazione attraverso i diritti.

«In questa prospettiva assume valore esemplare il destino che sarà riservato alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea perché essa, bene o male, riflette il tentativo di una regione del mondo di passare appunto da una pura integrazione economica ad una integrazione fondata anche sui diritti» (Stefano Rodotà).

Diventa allora plausibile l'idea che sia necessario e possibile sostenere un processo di governo della globalizzazione (global governance) che porti, come ci richiama Luciano Gallino, verso «una globalizzazione dal volto umano»; è allora tempo «che le radici dell'erba, come dicono gli inglesi, la base formata da quei cittadini del mondo per i quali la democrazia vive di partecipazione non meno che di rappresentanza, comincino a farsi sentire».

  

La scuola rappresenta l'istituzione a cui il patto costituzionale affida una rilevante responsabilità nel compito di elevare il livello culturale del Paese.

È questa la scuola che vogliamo contribuire a costruire.

«Si apre una fase pluriennale in cui il vostro apporto (dirigenti e insegnanti) sarà determinante per orientare al meglio il cammino dell'intero sistema educativo pubblico dell'istruzione e della formazione. Con oggi si avvia questa fase di colloquio e confronto che sarà produttiva per tutta la scuola e la società italiana. Torna alle scuole ciò che le scuole, pur entro le costrizioni del vecchio impianto centralistico ormai abbandonato, hanno saputo elaborare in concreto».

Era il concetto con cui Tullio De Mauro, in qualità di Ministro della Pubblica istruzione, chiudeva la lettera di accompagnamento alle scuole degli "indirizzi per l'attuazione del curricolo nella scuola dell'infanzia e nella scuola di base", elaborati dalla commissione dei "trecento".

È passato un anno: sembra un giorno e sembrano dieci anni. Sembra poco tempo perché in fondo parte di quegli indirizzi sono già scuola nelle migliori pratiche e sembra tantissimo tempo perché quel progetto è fermo, eufemisticamente "sospeso".

Ma in questo anno scolastico il segno del cambiamento è stato invertito: gli interventi avviati (dalla modifica della composizione delle commissioni dell'esame di stato, alla proposta sugli organi collegiali e al taglio degli organici) e in particolare il disegno di legge delega che sta per essere presentato al parlamento sono rivolti a contrapporsi non solo al progetto di innovazione degli ultimi cinque anni ma all'intero processo che, pur tra tante difficoltà, contraddizioni, mancanze, dagli anni sessanta ha cercato di promuovere uno sviluppo della nostra scuola in senso democratico.

Si sta sostenendo una nuova filosofia della formazione, si sta costruendo una nuova prospettiva per la scuola che prefigura un diverso futuro.

Si contrappone ad una scuola che sta cercando di costruirsi come scuola del diritto per tutti alla cultura, percorsi e luoghi di formazione divisi e differenziati: divisi sulla base dell'appartenenza culturale e religiosa e differenziati sulla base della collocazione sociale da raggiungere (confermare); una scuola dell'eccellenza per alcuni e una scuola della solidarietà per gli altri. Sullo sfondo rimane l'illusione che il mercato possa porsi come fattore di efficienza del sistema.

Diventa allora importante non limitarsi a difendere un processo di riforma interrotto ma rilanciare quelle scelte qualificanti che stanno alla base di una scuola secondo costituzione, in grado di sostenere la crescita della democrazia. E diventa importante partire dal protagonismo delle scuole e dei soggetti che in esse operano, valorizzando e sostenendo quei processi che non si sono interrotti e che continuano a reggere il nostro sistema scolastico.

Proviamo ad argomentare insieme attorno ad alcune ragioni della scuola che vogliamo, pensando che possa  rappresentare un contributo ad una possibile politica sulla formazione: 

 

1. Vogliamo una scuola in cui si possa essere diversi (in quanto uguali), in cui si diventi se stessi imparando gli altri.

La scuola è il laboratorio "naturale" per l'educazione alla diversità.

L'incontro e il confronto con le differenze, l'acquisizione della capacità di "utilizzarle", di "appropriarsene", di sapere dialogare con esse è indubbiamente un esercizio attraverso il quale il ragazzo impara a lasciare la sicurezza statica dell'omogeneità per avventurarsi nella ricchezza delle differenze raggiungendo livelli dinamici e più alti di sicurezza: un vero e proprio principio di convenienza.

"Nel comportamento sociale nulla è naturale. Razzismo, esclusione, emarginazione, oppressione sono prodotti della cultura. Soltanto la cultura può stabilire una tregua tra gruppi "differenti". E quindi produrre una condizione di tollerabile pace" (Furio Colombo).

La diversità, la cultura della diversità, pensata e vissuta quale risorsa, diventa una ricchezza da sfruttare nei complessi processi di crescita della società e dei cittadini, come esercizio e palestra di vita democratica.

È il valore della scuola pubblica in quanto pluralista e laica che la rende un vero laboratorio per la crescita della democrazia e sottolinea il limite delle scuole di "tendenza". 

La scuola pluralista  assume la democrazia come prassi: la scuola è un luogo,  un laboratorio di democrazia,  un luogo in cui si praticano regole di democrazia, in cui si respira la democrazia, il luogo dei diritti e dei doveri, della certezza delle regole, della significatività delle regole.

Contemporaneamente la scuola può formare quella autonomia e consapevolezza culturali necessarie per l'assunzione di responsabilità del singolo verso la collettività e, nello stesso tempo, come "formazione" del cittadino in quanto titolare di diritti civili e politici. 

Allora la scuola non può essere ridotta alla sola dimensione di "servizio pubblico", ne tanto meno un servizio sociale a domanda individuale; è un diritto/dovere del giovane cittadino; è  il giovane cittadino, unitamente alla società, la sede del diritto/dovere all'istruzione.

La scuola non è, dunque, un «bene negoziabile», una merce: è il luogo della cittadinanza e lo scolaro, lo studente non sono né  utenti di un servizio, né   clienti, né  consumatori.

Al centro della scuola si pone il diritto dello studente, di ogni studente, a vivere in una dimensione pluralista, e questa può essere garantita solo dalla reale libertà di insegnamento, solo se la scuola, se ogni singolo istituto scolastico, è sede di confronto, è luogo che attiva il confronto.

Il nostro sistema scolastico, tra tante mancanze, possiede, fino ad ora, un valore che forse sottovalutiamo: è proprio la sua dimensione "pubblica", di scuola come luogo di democrazia, dove le stesse diversità possono essere usate in funzione di una formazione aperta e tollerante.

  

2. Vogliamo una scuola in cui le condizioni socio-culturali di partenza risultino sempre meno determinanti per il raggiungimento dei più alti livelli di istruzione.

Al diritto/dovere all'istruzione deve corrispondere realmente, per tutti, il raggiungimento di quel livello di formazione culturale profonda e duratura, indispensabile oggi per vivere, lavorare, continuare ad apprendere nel corso della vita.

Per questo è fondamentale che l'impianto ordinamentale del curricolo scolastico, dall'infanzia fino all'età adulta, rispetti e potenzi le caratteristiche individuali e delle fasce di età.

 

Così, nella seconda infanzia (3-6), l'impianto curricolare della Scuola dell'infanzia, definito negli orientamenti del '91 e attuato in questi anni è da valutare di alto livello. Deve essere consolidato da ordinamenti adeguati, dalla valorizzazione delle esperienze attuative più avanzate e sostenuto con un piano di investimenti e di estensione capillare a tutto il territorio nazionale.

Ma la scuola dell'infanzia va difesa proprio come "prima scuola", nella sua triennalità, nella distanza del suo impianto da ogni tentazione si "precocismo", nel suo caratterizzarsi come ambiente ricco di linguaggi e di forme di rappresentazione e di comunicazione, nella capacità di rispettare e valorizzare, a fini formativi, la qualità dell'esperienza e la gioia di essere bambini.

Come far capire che l'anticipo dell'inizio di percorso dell'alfabetizzazione strumentale, con motivazioni esterne a criteri psicopedagogici, è sbagliato, irresponsabile? come far capire che a cinque anni la miglior scuola per tutti i bambini è quella dell'infanzia?  Claudia Fanti, maestra, ci riesce efficacemente raccontando ministorie di bambini per porre domande, per far sorgere dubbi; come la storia di Roberto «Roberto era il bambino che tutti genitori avrebbero voluto avere: mostrava curiosità per ogni cosa, sapeva leggere e scrivere perfettamente, contava e risolveva già qualche facile problema. Educato, sincero, ragionevole da far quasi spavento. Non sapeva tenere in mano un paio di forbici; piegare la carta per realizzare origami per lui era un tormento: non riusciva a seguire le più semplici istruzioni, non parliamo poi della plastilina: ogni volta che ne strappava un pezzo. era un urlo e chiedeva come si facesse a riattaccarlo senza neppure provarci.». Si chiede Claudia Fanti "per lui sarebbe stato giusto l'anticipo a cinque anni?"

 

Nella terza infanzia e nella preadolescenza (6-13/14), l'esperienza degli Istituti Comprensivi (che coinvolge il 43% delle scuole) e l'elaborazione del curricolo progressivo realizzato dalla commissione De Mauro rappresentato un riferimento molto significativo. Si tratta di mettere in atto un curricolo progressivo che permetta, nel rispetto dei tempi di sviluppo e di apprendimento di tutti i bambini, di far acquisire al un livello alto e persistente gli strumenti alfabetici nei diversi ambiti del sapere e loro consolidamento attraverso un adeguato avvio dell'approccio disciplinare alla conoscenza.

Proprio il passaggio dagli ambiti disciplinari alle discipline richiede un approccio curricolare verticale e progressivo senza la cesura del passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria. La riproposizione della separazione netta tra elementare e media è anacronistica e continuerà a rappresentare un fattore non marginale di dispersione scolastica.

L'esperienza conoscitiva ad ampio spettro rappresenta lo specifico dell'azione orientativa di questo livello scolare. 

 

Nell'età della prima adolescenza (14-16) si ritrova il nodo storico, e non ancora risolto, della scuola negli ultimi 30 anni vale a dire la definizione della natura delle scelte e quindi del ventaglio delle proposte di percorsi formativi da proporre ai ragazzi al termine della scuola di base.

L'oscillazione è avvenuta tra la proposta di percorsi onnicomprensivi di scuola secondaria superiore che rimandassero la formazione professionale oltre i diciotto anni e quella di percorsi paralleli di scuola e formazione professionale già dai quattordici anni.

Negli ultimi anni si è operato attorno all'indirizzo di considerare il primo biennio della scuola secondaria superiore come tassello conclusivo del diritto/dovere all'istruzione e i diciotto anni come l'età in cui portare a termine il tempo del diritto /dovere alla formazione.

Il biennio della scuola secondaria superiore rappresenta lo snodo non sostituibile  per lo sviluppo di alcune funzioni centrali della scuola:

- orientamento attraverso la scelta (effettuata in entrata, consolidata nei due anni e confermata in uscita)

- conclusione della formazione di base (attraverso la dimensione disciplinare del curricolo)

- costruzione delle basi dei percorsi quinquennali e per i primi percorsi di formazione professionale

 

Considerare pienamente il biennio all'interno dell'obbligo all'istruzione è determinante affinché non si interrompa l'esperienza scolastica proprio nell'età in cui il consolidamento culturale non è ancora pienamente realizzato. Il differenziare precocemente i percorsi formativi metterebbe in discussione il ruolo della scuola come luogo di "decondizionamento sociale".

Una scuola che rinunciasse a corrispondere ai bisogni di formazione culturale alta per tutti e riscoprisse la vocazione alla selezione attraverso una separazione precoce dei ragazzi in percorsi con valenza formativa diversa, rappresenterebbe un passo indietro nello sviluppo della società in senso democratico e una risposta miope, arretrata e insufficiente anche alle richieste del mercato del lavoro, finendo proprio per ridurre la formazione di molti cittadini alle esigenze contingenti del mondo della produzione.

In questa logica la formazione professionale non può essere posta in alternativa all'istruzione prima della conclusione del biennio; diventa invece un asse portante, una risorsa su cui investire del sistema formativo integrato sia nel periodo del diritto/dovere alla formazione (16-18) sia per tutto l'arco della vita. 

 

 

3. Vogliamo una scuola che aiuti a formare persone in grado di pensare criticamente.

Nel diritto/dovere alla cultura di tutti e di ciascuno la scuola fonda il suo principio basilare: quello di formare persone in grado di pensare criticamente, di avere conoscenze e strumenti di interpretazione, di conquistare una disciplina mentale che rifiuti le certezze affrettate e il pensiero semplificato. Coerentemente con i principi che lo ispirano, tale progetto educativo dovrà porsi l'obiettivo di formare i "cittadini del mondo", vale a dire donne e uomini capaci di confrontarsi costantemente con gli altri, di mettere in comune i vari punti di vista, di valorizzare le differenze, nel dialogo e nel rapporto con altre storie e altre culture.

La scuola viene a rappresentare il luogo della consapevolezza in cui l'esperienza quotidiana, il senso comune, l'apprendimento spontaneo, televisivo, elettronico, si incontrano con la valenza formativa delle discipline: è questa una lunga, lenta e fondamentale esperienza conoscitiva che tutti devono poter incontrare e percorrere in modo compiuto, per consolidare gli alfabeti, i linguaggi e quelle competenze culturali che possono sorreggerli e renderli soggetti attivi della democrazia.

In primo piano ritorna il problema, che aveva caratterizzato i lavori della Commissione De Mauro, relativamente alla costruzione di un progetto culturale e curricolare unitario che attivi al massimo la dimensione formativa delle discipline, che abbia la capacità di far interagire il sistema complesso della cultura formale elaborata nelle diverse costruzioni disciplinari, con la struttura del pensiero.

Il passaggio dai programmi al curricolo verticale e progressivo dovrebbe continuare ad essere al centro dell'impegno innovativo delle scuole e della scuola, ma, purtroppo, è totalmente scomparso nelle agende del lavoro ministeriale.

La prospettiva che sembra prendere forma nella elaborazione e nelle scelte del governo e quella della scorciatoia, della semplificazione; un curricolo costruito sulla giustapposizione di diversi percorsi di apprendimento, non integrabili né riconducibili a una unitaria progetto formativo.

Il percorso obbligatorio previsto è insufficiente a garantire lo sviluppo di strumenti culturali adeguati; il percorso facoltativo proposto non è in grado di completare tale sviluppo in quanto casuale, frammentato e inconsistente nella sua valenza formativa.
Ne risulta un progetto culturale debole e discriminante: infatti la configurazione del percorso facoltativo come risposta a domanda individuale ripropone una vecchia gerarchia tra discipline (e quindi tra insegnanti), che non trova riscontro nella scuola, e sminuisce il valore formativo dell'apprendere insieme.

È importante rilanciare l'impegno sul curricolo partendo dal lavoro delle scuole.

Attorno al ruolo del sapere disciplinare nella costruzione del curricolo;   attorno ai criteri della scelta e della definizione dei contenuti, ai criteri organizzatori della cultura scolastica in rapporto appunto alle discipline, tenendo presente che queste "vivono" in ambienti non ordinati da tassonomie di significati formativi; garantire l'approccio e lo spessore storico e culturale al sapere disciplinare.

É il complesso problema della reattività del sapere scolastico con il mondo di significati, non solo di significati cognitivi, dei bambini e dei ragazzi, della costruzione e ricostruzione di mondi di significati; e non è un problema di tecniche didattiche ma di mediazione culturale.

  

4. Vogliamo una scuola che fornisca gli strumenti culturali per avere un lavoro veramente umano.

Il mercato del lavoro è sempre più impietoso per coloro che non possiedono le basi culturali (sì proprio "culturali") necessarie a far evolvere le proprie capacità professionali.

È allora necessario che non si interrompa l'esperienza scolastica prima del consolidamento delle competenze culturali di base.

La formazione specialistica anticipata è caratteristica di profili professionali rigidi; ma nella società della conoscenza il lavoro tende a incorporare sempre più competenze culturali di base, senza le quali le professionalità raggiunte risultano deboli e sfavorevoli per i singoli e per lo stesso mondo produttivo.

Va dunque difeso il diritto/dovere all'istruzione che comprenda i primi due anni della scuola secondaria superiore, mentre il periodo appena successivo a tale età (16÷18 anni) può costituisce il tempo del "confine", dell'intreccio e della contaminazione tra i sistemi dell'istruzione e della formazione professionale per garantire a tutti il diritto/dovere formativo: aver acquisito le necessarie basi culturali, nel percorso scolastico) e averle valorizzate professionalmente nella formazione professionale.

Le proposte della commissione ministeriale presieduta da Giuseppe Bertagna hanno però capovolto le prospettive; al termine del primo ciclo (13/14 anni) si prospetta la scelta tra due sistemi della formazione: il sistema dei licei e i sistema dell'istruzione e della formazione professionale.

Ogni sistema si costruisce su principi educativi propri: i licei (istruzione di natura "secondaria di II grado", ma senza altri aggettivi) centrati sul conoscere e teorizzare, sul rapportarsi con le idee e con le relazioni intellettuali formali tra le conoscenze, sulla cultura alla seconda potenza (metagiudizio, metacognizione, con risvolti su tutti gli aspetti della personalità), l'istruzione e la formazione professionale (in cui "professionale" è riferito anche a "istruzione") centrate sul fare, sul produrre, sull'operare, sul costruire intesi come immettere le idee (le conoscenze) nella realtà, mediante apposite operazioni di progettazione e di trasformazione che diventano poi  pratiche professionali esperte.

Alla base di tale separazione vi è un ragionamento esplicitato nel rapporto della commissione: «Conoscere, e agire, costruire e produrre per lo scopo principale di conoscere non è la stessa cosa che conoscere per lo scopo principale di agire, costruire e produrre. Sono orientamenti che si intrecciano, ma che non si confondono. L'istruzione desidera soprattutto concentrarsi sul conoscere secondario: sul sapere. La formazione sul produrre che implica conoscenze altrettanto secondarie: sul fare sapendo sempre ciò che si fa e perché lo si deve fare in un modo piuttosto che in un altro. Qualche giovane è più attirato dalle dimensioni grammaticali e teoretiche del sapere; altri da quelle pragmatiche ed operative del sapere di cui ha bisogno qualsiasi fare umano. Qualcuno più dalla scienza, altri più dalla tecnica. Prendere atto di queste diversità aiuta a non affrontare la questione in maniera ideologica, ma rispettosa sia dei suoi aspetti educativi, sia di quelli epistemologici. Si tratta allora di affrontare senza i pregiudizi del passato il problema della formazione in generale e della formazione professionale in particolare».

I componenti della commissione ministeriale rifiutano di definire i due percorsi come due canali paralleli (a tale scopo prevedono la possibilità dei passaggi) ma è difficile non ammettere che il primo percorso è costruito sullo studio "disinteressato" e finalizzato solo alla formazione culturale, mentre nel secondo sarà difficile impedire che le conoscenze vengano "selezionate" e "dosate" in riferimento alla formazione professionale da raggiungere e che, quindi, i passaggi eventuali saranno solo dal primo verso il secondo percorso che si proporrà come percorso scolastico rivolto a coloro che non sono in grado di seguire quello liceale.

Una scelta tanto precoce rappresenta «un salto indietro» agli anni sessanta; è il recente giudizio di Luciano Gallino: «perché in questi trent'anni il mondo del lavoro è diventato molto più complesso.Quasi tutte le professioni si sono fortemente differenziate, ne sono nate di nuove a migliaia, si sono formati ibridi di ogni sorta, i lavoro tradizionali hanno contenuti inediti. Di conseguenza si sono accresciute le difficoltà per chiunque di formarsi una rappresentazione abbastanza articolata e realistica del mondo del lavoro per permettere di compiere scelte ponderate, in cui ne va del proprio futuro. (.) È praticamente impossibile che un quattordicenne se la sia formata». È questo «un ottimo mezzo per riprodurre le disuguaglianze di classe sociale».

 

5. Vogliamo una scuola in grado di vivere la città.

 

Sulle piazze delle città si affacciano le istituzioni che rendono possibile le comunità: il municipio, l'azienda sanitaria locale, i servizi sociali, le istituzioni religiose.; è basilare che la scuola venga riconosciuta e si riconosca come istituzione che con una propria identità e una propria funzione si affaccia sulle piazze delle città per interagire con le altre istituzioni.

È uno degli obiettivi più importanti del processo di autonomia, ribadito anche dalla legge costituzionale n.3: la scuola è un modo di essere della città, luogo di vita democratica che respira l'aria della città e che contribuisce a renderla più respirabile.

 

6. Vogliamo una scuola che sviluppi il gusto e la soddisfazione di conoscere e imparare.

La formazione culturale è un bene a cui nessuno deve rinunciare, nessun genitore può permettere che i propri figli ne siano privi perché è il bene più prezioso che gli adulti possono consegnare alle nuove generazioni. Eppure sappiamo bene quanto è difficile costruire una scuola per tutti, in grado di intercettare i tanti Gianni, e quanto è più difficile fare scuola con i ragazzi come Gianni; ma sappiamo anche che non è impossibile: quando la scuola si dota delle risorse necessarie, quando si migliorano la qualità del curricolo e delle relazioni è possibile farcela, è possibile intercettare e aiutare a far crescere quel gusto per l'esperienza conoscitiva che abita in ogni ragazzo e che ogni ragazzo ha il diritto/dovere di scoprire e sviluppare.

Il lavoro che attende la scuola deve essere rivolto ad approfondire e rinnovare la specificità conoscitiva della scuola. Socializzazione, apprendimento, funzione conoscitiva e poi ancora cognitivo, emotivo, non sono elementi da contrapporre: c'è uno specifico scolastico che li fa dialogare in un equilibrio continuamente ricostruito; uno specifico dello stare a scuola non totalizzante ma significativo, in cui il dilemma educazione-istruzione si risolve nell'apprendimento come atto di socializzazione, nell'apprendimento situato in precisi ambiti di relazioni sociali, emotive e di stimoli culturali.

L'esperienza conoscitiva, l'esperienza di apprendere non è una delle tante funzioni della scuola da affiancare ad altre o, talmente forte, da produrre l'esclusione delle altre: rappresenta invece il nodo centrale dell'esperienza scolastica, il nodo attorno al quale si costruiscono e si intrecciano le altre dimensioni dello stare a scuola.

Dunque la preoccupazione per l'apprendimento, per la qualità dell'istruzione deve rimanere in primo piano, come distintiva della forma attraverso cui la scuola contribuisce all'educazione.

Per la scuola l'errore e/o il limite non stanno nel possedere una  logica specifica di conoscenza (alla quale dovrebbe rinunciare per adottarne altre più efficaci/efficienti e più vicine a quelle spontanee) ma nel non riconoscere con piena consapevolezza, l'esistenza di altre logiche; nel non riconoscere che gli studenti sono "portatori" sani di altre logiche conoscitive, le quali continuano a funzionare anche quando essi si trovano nell'ambiente scolastico: la forza della scuola sta proprio nel sapersi confrontare e rapportare con esse, nel tenerne conto e, eventualmente, nell'utilizzarle come risorsa.

 

L'impegno attorno al significato del fare scuola rappresenta pure il centro del nostro essere insegnanti: farsi carico della formazione culturale di un bambino o di un adolescente, avere un rapporto non casuale, non generico con l'altrui soggettività, per riuscire a fornire a quella persona gli strumenti culturali perché sia maggiormente libera dai condizionamenti, autonoma, indipendente e in grado di fare scelte consapevoli.

Ma gli insegnanti sono i grandi assenti della riforma in atto (sono stati ascoltati attraverso un sondaggio ISTAT). Eppure non vi può essere rinnovamento della scuola senza coinvolgimento pieno degli insegnanti: comportamenti professionali e trasformazioni dei sistemi di istruzione si influenzano vicendevolmente. È fondamentale quindi che le riforme siano condivise dentro e fuori la scuola, così come è fondamentale investire nella professione docente attraverso scelte politiche coerenti con le riforme che si vogliono attuare. La partecipazione dei docenti ai processi di riforma passa in primo luogo attraverso la valorizzazione della loro pratica professionale.

Nei prossimi mesi dovremo riuscire a riporre la questione insegnanti al centro della questione scuola anche attraverso lo strumento dell'autonomia scolastica intesa come quel processo in grado di liberare e valorizzare  il protagonismo dei soggetti che operano nella scuola. Si tratta di rilanciare il ruolo e la responsabilità degli insegnanti nella costruzione e nel governo del progetto curricolare, il rinnovamento dei percorsi di formazione iniziale recuperando le esperienze positive realizzate in questi anni, la ricerca come elemento intrinseco all'operare individuale e collegiale.

È una battaglia necessaria per uscire dall'autoreferenzialità e dall'isolamento, per ricollocare le pratiche consolidate nella scuola come un fattore non marginale del processo di cambiamento.

Hannah Arendt, che pure non era tenera con la scuola, traccia un bellissimo profilo dell'insegnante:

«L'insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al fanciullo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo». (Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano, 1991)

Dite voi se non è un mestiere straordinario.

 

 

Riprendo il filo conduttore da cui sono partito: quale può essere il ruolo, la responsabilità della scuola e di noi insegnanti in questo tempo poichè "sappiamo tutti che sulla scuola si gioca un'idea di società e un'idea di futuro".

Penso non sia retorico riperterci che rimane quello di contribuire a formare quelle donne e quegli uomini in grado di far crescere la democrazia.

Vorrei concludere chiamando come testimoni due grandi pensatori del nostro tempo, il laico razionalista Norberto Bobbio e il poeta cristiano Ernesto Balducci.

Ci richiama Bobbio ritornando a Kant: «Il progresso umano come la stessa democrazia non sono necessari, sono solo possibili.Rispetto alle grandi aspirazioni degli uomini di buona volontà siamo già troppo in ritardo. Cerchiamo di non accrescerlo con la nostra sfiducia, con la nostra indolenza, con il nostro scetticismo. Non abbiamo tempo da perdere».

E Ernesto Balducci ci ricordava che «i fili dell'utopia si intessono con quelli della realtà attraverso il progetto».

Ecco serve operare insieme per tessere i fili dell'utopia con la realtà. Non abbiamo tempo da perdere.

 

 

 

 

(21.03.2002)

Riforme

Tutti i Forum del sito

Cerca nel web, nel sito, nei siti amici cerca
Google
 


 

funzioni strumentali