La valutazione tra passato e futuro


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La valutazione tra passato e futuro

di Maurizio Tiriticco

La valutazione non è indifferente al sistema di istruzione

La valutazione degli apprendimenti non costituisce una variabile indipendente rispetto a un determinato sistema di istruzione, o meglio non è un optional , per cui un sistema valutativo sarebbe indifferente rispetto a un altro. Un sistema valutativo, invece, è coerente con il sistema di insegnamento o meglio con le finalità che un sistema di istruzione si propone di perseguire.

Un sistema di istruzione varia da Paese a Paese, da sistema sociale a sistema sociale e cambia, ovviamente, anche nel tempo. Quando un Paese conquista livelli più alti di democrazia, si adopera anche perché tutti i suoi cittadini possano fruire dell'istruzione. Del resto, analogo discorso vale per un sistema sanitario, per quello previdenziale e pensionistico. Garantire a tutti i cittadini la possibilità di fruire in misura sempre maggiore dei servizi sociali essenziali e irrinunciabili è una delle sfide più importanti che un Paese democratico e ad alto sviluppo si propone.

Pertanto, se un sistema valutativo è funzionale alle scelte istituzionali, ordinamentali e didattiche nonché alle finalità che un sistema di istruzione si propone, è anche vero che, in un sistema rigidamente diviso in classi e selettivo, la valutazione è altrettanto discriminante e selettiva, mentre invece, in un sistema inclusivo, la valutazione è promozionale e orientativa.

Due valutazioni per due gradi di istruzione

Potremmo anche aggiungere che neanche la stessa scuola è un dato di fatto! In effetti, gli stessi sistemi scolastici, così come noi oggi li intendiamo, sono nati di volta in volta solo in quei Paesi in cui l'Assolutismo illuminato o le vincenti borghesie avvertivano la necessità di disporre di una popolazione, o di parte di essa, più istruita, in grado di accompagnare e sostenere assetti sociali in profonda trasformazione, laddove nascevano amministrazioni pubbliche, apparati produttivi industriali e commerciali.

Il nostro Paese, rispetto ad altri europei, è giunto tardi all'Unità nazionale e la stessa scuola pubblica, intesa come noi oggi la intendiamo, è nata solo dopo il fatidico 1861, con la proclamazione del Regno d'Italia. Nella seconda metà dell'Ottocento è nato così il primo nucleo dell'istruzione obbligatoria e via via si sono sviluppate le prime istituzioni scolastiche secondarie. Il canale privilegiato era ovviamente quello classico (il ginnasio, dal gymnasium tedesco, il liceo, dal lycée francese, per non far torto a nessuno, almeno nella nomenclatura, dei più avanzati sistemi di istruzione europei e più noti alla nostra borghesia); il canale direttamente legato al mondo del lavoro era quello tecnico e dell'addestramento professionale.

L'istruzione obbligatoria aveva carattere "elementare", in quanto la borghesia del tempo avvertiva la necessità di permettere a tutti di apprendere i primi elementi che garantissero a tutti i nuovi nati una sorta di "sopravvivenza culturale" in un Paese che nutriva grandi ambizioni. Occorreva condividere una lingua ed eseguire le quattro operazioni aritmetiche. Su questi primi elementi si sarebbero poi costruiti da un lato, per gli alunni "migliori", "capaci" e "meritevoli", i percorsi "seri", quelli destinati alla formazione della classe dirigente, dall'altro quelli destinati alla formazione dei quadri tecnici intermedi.

Si dette vita e si andò via via sviluppando con ulteriori correzioni un sistema di istruzione rispondente alla necessità culturali e socioeconomiche dell'Italia borghese di allora.

Valutazioni diverse per due scuole diverse

Il concetto stesso di scuola elementare esigeva un particolare sistema valutativo, non eccessivamente rigoroso, dato che le abilità del leggere, scrivere e far di conto avevano un carattere più strumentale che funzionale . Ad esempio la calligrafia, ovvero una bella grafia, era particolarmente importante in funzione del fatto che vi era la necessità di una massa impiegatizia capace di scrivere sotto dettatura e copiare e copiare… ancora e sempre e… manualmente - i "cembali scrivani" fecero la loro comparsa negli uffici solo agli inizi del Novecento - testi non solo senza errori, ma anche facili a leggersi! Per il travet e per la segretaria di allora non era importante comprendere il significato delle parole e di un testo, era importante scrivere correttamente sotto il profilo ortografico! E non era un caso che l'ascoltare, il parlare, il transcodificare non erano affatto intesi come abilità linguistiche. Leggere e scrivere avevano solo un fine pratico e strumentale.

Ne discese che, nella scuola obbligatoria aperta e a tutti, la valutazione avesse un fine essenzialmente formativo e si adottarono quattro livelli valutativi, indicati con altrettanti inequivocabili aggettivi, di cui uno solo negativo: insufficiente , sufficiente , buono e lodevole . Nelle scuole secondarie i criteri, invece, erano assolutamente diversi: furono adottati i dieci voti, come numeri interi, i primi cinque con valore negativo, gli altri con valore positivo.

Va sottolineato che si trattò di scelte ispirate soltanto dal buonsenso in quanto nessuna cultura della valutazione, nessuna ricerca scientifica in tale direzione avevano ancora visto la luce. Quella che noi chiamiamo docimologia nacque soltanto negli anni Venti del secolo scorso a opera di Henry Pieron che in Francia adottò una batteria di test finalizzati a verificare la presenza o meno di determinate capacità in alunni dell'ultimo anno della scuola elementare.

Verso una valutazione più attenta e mirata

Di fatto, si è dato inizio a una riflessione seria sulla valutazione quando ci si accorse che la scuola doveva migliorare i suoi ordinamenti e le sue strategie, in quanto doveva rispondere a esigenze di istruzione che si facevano sempre più ampie. Insomma, man mano che la scuola, nei diversi Paesi avanzati, diventava di massa, imponeva ai governi strategie di insegnamento e di valutazione più attente, più sofisticate, più rispondenti alla necessità di promuovere cultura e conoscenze più che discriminarle.

Gi anni Venti furono quelli di Dewey e del suo Democrazia e educazione che - e non fu un caso - in Italia conoscemmo solo nel dopoguerra in quanto, in tutto il periodo fascista la ricerca pedagogica rimase confinata solo nella pratica didattica elementare (del resto la pedagogia nel suo significato primo non aveva come oggetto la guida dei soli bambini?), anche in forza della filosofia e della pratica gentiliana.

La valutazione nella scuola del Regime

Con l'avvento del fascismo si ebbero cambiamenti notevoli. Quello Stato totalitario che nel 1929 cambiò la stessa intestazione del Ministero dell'Istruzione in Ministero dell'Educazione Nazionale, nutriva ben altre ambizioni rispetto a quelle di limitarsi alla sola istruzione della gioventù.

Questa fu totalmente inquadrata nelle organizzazioni giovanili fasciste, l'Opera Balilla e poi la Gioventù Italiana del Littorio, e il fine stesso dell'educare era quello di acculturarla a un unico credo. Oltre alla condotta (ovviamente a senso unico) e all'obbligo delle adunate il "sabato fascista", figuravano materie come cultura militare e cultura fascista e, a livelli superiori, anche la mistica fascista (sic!).

In un simile contesto, la pratica del voto nelle scuole secondarie era funzionale a tali finalità. Con la Carta della scuola del 1939 il ministro Bottai perfezionò l'opera di fascistizzazione dell'intero sistema scolastico e dette vita a un impianto ordinamentale così solido che resistette alla guerra e anche al dopoguerra. Si cominciò a pensare già da allora all'innalzamento dell'obbligo - per altro mai realizzato - e a una scuola media che unificasse i vari percorsi postelementari. Fu così che nella scuola media unica, comprensiva dei primi tre anni ginnasiali, venne introdotta una valutazione per giudizi distinta su cinque livelli: assolutamente insufficiente , insufficiente , sufficiente , buono , ottimo . Si adottò una linea valutativa morbida e inclusiva per certi versi, stante il fatto che il consolidamento del regime, verificatosi nel corso degli anni Trenta, avrebbe pur sempre garantito che i bambini italiani, non uno di meno - mi sia concesso! - diventassero tutti autentici fascisti: libro e moschetto, fascista perfetto ! Credere, obbedire, combattere ! La fedeltà al Duce era totale: Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se mi uccidono vendicatemi ! Siamo nel ‘39! La popolazione tutta era fortemente fascistizzata. Non è un caso che l'anno precedente le leggi razziali erano passate quasi senza colpo ferire!

Nei successivi gradi di istruzione, dove la selezione sarebbe stata ancor più rimarcata, non venne messa in discussione la valutazione decimale.

La scuola della Repubblica

Fu così che, nonostante l'avvento della Repubblica e la restaurazione della democrazia, quegli ordinamenti resistettero per molti anni. La timida introduzione dell'Educazione civica nel 1958 non ebbe molta fortuna perché il corpo molle della scuola era ancora quello di sempre, a fronte del quale la nuova disciplina costituiva, di fatto, un elemento pressoché estraneo! Più tardi, con l'innovazione della scuola media unica ottonale obbligatoria del 1962, la scuola media della riforma Bottai venne riordinata e fusa con le scuole di avviamento che lo stesso Bottai aveva liquidato, ma che per le necessità postbelliche erano state riattivate. Viene anche da pensare che gli stessi insuccessi dei primi anni della nuova scuola media, a cui seguirono i rimproveri di Don Milani nel 1967 furono in gran parte dovuti al fatto che il cambiamento attuato cinque anni prima non era andato in profondità.

Gli otto anni dell'obbligo non furono affatto riordinati in vista delle finalità assolutamente nuove che venivano proposte. La scuola elementare rimaneva quella dei programmi Ermini del 1955, intesa a considerare il "fanciullo tutto intuizione, fantasia e sentimento" (non a caso alcuni definirono i successivi programmi del 1985 quelli del "bambino della ragione"!) e a proporsi "come suo fondamento e coronamento l'insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica". Né subì profonde modifiche la scuola media! Il latino, sempre duro a morire, venne reinterpretato come un supporto all'insegnamento dell'italiano. Non solo! La scuola media conservò la sua posizione ben salda di primo grado dell'intero sistema secondario. Altro che percorso continuo , verticale , unitario , progressivo e costantemente orientativo e riorientativo , come diremmo oggi, dai sei ai quattordici anni di età! Il fatto è che allora il concetto stesso di curricolo era estraneo alla nostra pratica scolastica. Solo gli avviamenti "scomparvero", adottando i programmi del ‘62.

Ma i due gradi di istruzione, elementare e media, rimasero tali e ancora oggi - fatta eccezione delle Indicazioni per la scuola dell'infanzia e per il primo ciclo di istruzione del 2007 le quali, pur se tracciano un curricolo continuo, hanno, com'è noto, carattere sperimentale - sono ben saldi ai loro ormeggi di sempre!

Dal voto al giudizio

Dal ‘62 al ‘77 nella scuola media si valutava con i voti. Comunque, la lezione di Don Milani, quella del Sessantotto, l'avvio della ricerca curricolare e di quella docimologica permisero una nuova maturazione in fatto di valutazione. Fu così che con la legge 517/77 venne adottata nell'intera scuola dell'obbligo la programmazione educativa e didattica, furono aboliti i voti e fu introdotta la pratica del giudizio. Ebbe così inizio una lunga stagione di ricerca, sperimentazione, innovazione continua, contrassegnata anche da un succedersi di proposte e di documenti valutativi (la scheda personale dell'alunno) tutti finalizzati a costruire una pratica assolutamente nuova del valutare, che interessasse non solo i momenti terminali dello studio di un alunno, ma anche e soprattutto quelli iniziali (la valutazione di ingresso), quelli di percorso (la valutazione continua) e quelli, ovviamente, conclusivi. La valutazione doveva diventare, infatti, una sorta di volano per l'intera pratica programmatoria curricolare.

Furono anni di intenso lavoro e di una sperimentazione collettiva in cui scuole e amministrazione furono solidalmente impegnate. Si trattava di dar vita a una "valutazione di criterio", la quale capovolgesse definitivamente le ambiguità della valutazione tradizionale. Questa, infatti era essenzialmente centrata sui contenuti degli apprendimenti, mentre la valutazione di criterio puntava direttamente sul perseguimento e sul raggiungimento degli obiettivi.

Due circolari "famose", la 167 per la scuola media e la 237 per l'elementare, ambedue del ‘93, riuscirono per certi versi a chiudere il cerchio sulla pratica della valutazione per giudizi e a dare alle scuole indicazioni che, anche se leggermente diversificate in relazione ai due gradi, attingevano a un'unica matrice teorica. I livelli individuati per quanto concerne il raggiungimento degli obiettivi da parte dell'alunno erano cinque, equamente distribuiti. Quello intermedio, C, prevedeva per la scuola elementare il seguente giudizio: "l'alunno ha conseguito una competenza essenziale e si impegna per migliorarla"; per la scuola media: "raggiungimento degli obiettivi essenziali".

Da quell'anno le scuole avevano ormai dei riferimenti largamente comuni per operare di concerto in materia di valutazione. Restava pur sempre il divario tra due gradi di scuola che, invece, avrebbero dovuto operare di concerto non solo in materia di valutazione. In effetti la cesura tra i due gradi dettata dagli ordinamenti vigenti contrastava con la necessità di avviare, invece, programmazioni curricolari coerenti e di respiro ottonnale. Va comunque ricordata un'ordinanza del ‘93 sulla continuità educativa che sollecitava gli operatori dei due gradi di scuola a incontrarsi per realizzare programmazioni curricolari in verticale che evitassero quella cesura che dal punto di vista formale l'esame di licenza elementare manteneva in piedi. Per non dire poi della esperienza degli istituti comprensivi che ancora oggi costituiscono un forte punto di riferimento teso a superare il secolare diaframma tra i due gradi di istruzione.

Insegnare per obiettivi

Ovviamente, la cultura della valutazione, dopo circa venti anni di ricerca teorica e pratica, dopo l'innovazione del ‘77, richiedeva un coinvolgimento della totalità degli insegnanti e, soprattutto, dei fruitori del servizio scolastico, alunni e genitori. Indubbiamente, insegnare per obiettivi e non per contenuti , imponeva anche una crescita "culturale" ben lontana rispetto alla scuola del passato la quale, con i voti decimali, comunicava con estrema semplicità l'andamento degli apprendimenti senza, però, entrare nel merito.

I nuovi criteri valutativi richiedevano un particolare impegno sia per la stesura dei giudizi e l'individuazione dei livelli che per la loro lettura. Al malumore serpeggiante l'amministrazione volle dare una risposta. Fu così che, con la circolare 491 del ‘96, venne adottata una nuova scheda, valida per l'intera scuola dell'obbligo, la quale, per certi versi, semplificava le operazioni valutative, per altri, però, le impoveriva sotto il profilo concettuale. Infatti, al fine di rendere più agevole l'operazione valutativa e la lettura della scheda da parte degli alunni e delle loro famiglie, vennero eliminati i giudizi per discipline e sostituiti con dei semplici aggettivi, ovviamente più immediati alla lettura, ma scarsamente informativi sotto il profilo analitico. I livelli rimasero sempre cinque, con questa distribuzione: non sufficiente , sufficiente , buono , distinto , ottimo , già utilizzati sui diplomi al termine degli esami di Stato della terza media. Però, se una valutazione di questo tipo era giustificata per quanto riguarda un esame che, in quanto di istruzione obbligatoria, mirava più a orientare che a formare, risultava assolutamente inadeguata per indicare di volta in volta il graduale livello di sviluppo di un alunno.

In effetti, mentre con le schede del ‘94 erano due su cinque i livelli della insufficienza, con le schede del ‘96 solo un livello su cinque indicava la non sufficienza. Il che provocava uno sbilanciamento sia nell'insegnare che nel valutare. Comunque, la pubblica opinione accettò l'innovazione e le scuole, occorre dirlo, non furono da meno. Del resto, nella stessa circolare era chiaramente scritto quanto segue:

"Si è rilevata, infatti, la necessità di:

  • distinguere tra funzione certificativo-comunicativa e funzione didatticoformativa della valutazione;

  • ridurre il carico di lavoro redazionale che pesa sull'insegnante, con evidenti diseconomie nella distribuzione degli impegni professionali;

  • garantire chiarezza alle informazioni valutative destinate agli alunni e alle loro famiglie".

A mio giudizio, quella scelta fu funesta per la nostra scuola. Di fatto, circa venti anni di ricerca valutativa, a partire dalla scelta operata con la legge 517/77, vennero gettati via in forza della necessità di compiacere a una platea insofferente rispetto all'impegno di crescita culturale che una scuola più articolata e più ricca in materia di scelte educative e didattiche richiedeva.

Una scelta funesta: il ritorno ai voti

Oggi, a più di dieci anni di distanza, il ritorno alla valutazione decimale deciso dai ministri Tremonti e Gelmini è stato senz'altro una scelta infausta.

Però, va anche detto che, se il nostro primo ciclo di istruzione in materia di valutazione si fosse trovato a operare secondo criteri scientificamente consolidati - criteri che la cm 491/96 ha spazzato via - tale scelta non sarebbe neanche stata proposta.

Ci troviamo pertanto in una situazione molto difficile. Per anni abbiamo insistito nel sostenere che una cosa è misurare una prestazione, altra cosa valutarla ; che una cosa è valutare un processo, altra cosa valutare un prodotto; e che si tratta di operazioni diverse che richiedono diversi criteri per operare. E abbiamo anche detto che la votazione decimale è assolutamente inadeguata a fronte delle due operazioni del misurare e valutare, in quanto il voto viene utilizzato indifferentemente per ambedue. In altri termini, il voto è uno strumento assolutamente povero a fronte di quella cultura della valutazione che abbiamo maturato nel corso degli ultimi quarant'anni, se non di più. Pertanto, il ritorno al voto, giustificato in forza della semplicità e della trasparenza, di fatto ci riporta indietro, verso una scuola più capace di selezionare che di promuovere.

La pericolosità del merito

In effetti, tutto il gran dire che si fa sull'eccellenza e sul merito trova proprio nel voto la sua legittimazione. È con il voto assoluto, insindacabile e non giustificato che la scuola può dire che ci sono alunni meritevoli e non meritevoli, capaci e incapaci: quelli che "hanno voglia di studiare" e quelli che, invece, "non sono portati per lo studio". E tali affermazioni, soprattutto per un'istruzione obbligatoria, in un Paese civile e democratico, sono assolutamente inaccettabili. Perché la scuola, che dovrebbe combattere contro le discriminazioni sociali di partenza, finisce, invece, per giustificarle, sanzionarle e legittimarle. Quel mondo diviso in due, dove i Pierini meritano tutto e i Gianni niente, contro il quale ci siamo sempre battuti, rischia di essere il reale mondo di domani, se le scelte avviate dall'attuale amministrazione dovessero procedere anche contro le ragionate critiche espresse da gran parte del mondo della scuola e della pubblica opinione.

A che cosa sono servite le ricerche di Althusser o di Marcuse o di Bourdieu e Passeron o dei descolarizzatori che negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avevano denunciato con piena ragione, anche se con accenti e conclusioni diverse, tutte le "ingiustizie" di una scuola fatta in un certo modo? E come non ricordare quel Rapporto Unesco-Faure che nel ‘72 aprì quella stagione di Una educazione per un nuovo ordine sociale : un sistema di istruzione inteso come motore dello sviluppo? Fu proprio da quelle ricerche che partimmo per cambiare strutture, ordinamenti, finalità di un sistema di istruzione, in primo luogo obbligatorio, e comprendemmo che la leva della valutazione poteva servire indifferentemente a bocciare o a promuovere , ovviamente in ordine alle scelte di fondo che si sarebbero effettuate in merito.

Non è un caso che l'aver ricondotto l'innalzamento dell'obbligo fino a sedici di età anche nei percorsi della formazione professionale regionale (legge 133/08, art. 64, c. 4 bis) non solo ci riporta alla scelta di un "doppio canale" già operata dalla Moratti con la legge 53/03, ma autorizza gli insegnanti del primo ciclo a orientare i loro alunni verso l'istruzione o verso la formazione professionale secondo i criteri già adottati tanti anni fa e che ci illudevamo che fossero stati cancellati per sempre.

Per tutte queste ragioni, il ritorno al voto, non è affatto un'operazione destinata a semplificare la valutazione, ma a restituire al primo ciclo di istruzione quella connotazione di primo strumento selettivo che pensavamo, invece, di avere liquidato per sempre.

 

 

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